TESINA INTERDISCIPLINARE

PROF. MASSIMILIANO BADIALI

 

 

ESISTENZIALISMO

 

 

PRESENTAZIONE

 

ITALIANO

- L’esistenzialismo e Luigi Pirandello

FRANCESE

- Jean Paul Sartre

STORIA

- L’avvento del Fascismo, Il ventennio fascista, il fascismo gentiliano e quello cattolico

ECONOMIA

- L’economia nel fascismo, Keynes e Teoria quantitava della moneta

EDUCAZIONE FISICA

- L’importanza dello sport nel fascismo, l’apparato locomotore

SCIENZE DEGLI ALIMENTI

- Cereali: la fibra

MERCEOLOGIA

- Cellulosa: Rayon

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel 1917 si accentuò in maniera dirompente il distacco psicologico e politico dei soldati e della popolazione dalla guerra e dalla sua ideologia. La primavera del 1917 giungeva alla fine di un inverno drammatico, vissuto dalle truppe al fronte in condizioni sempre più disumane. I soldati, malnutriti ed esposti a disagi e malattie di ogni tipo, erano costretti a vivere ormai quasi sotterrati nelle trincee. Inoltre l’utilizzazione di nuove armi, come le bombe a mano, i lanciafiamme e i micidiali gas asfissianti avevano decimato le truppe ridotte allo stremo. Su tutti i fronti si manifestarono diserzioni di massa, insubordinazioni e ammutinamenti, che i comandi cercarono di arginare con misure disciplinari severissime, processi e non di rado fucilazioni. Il disfattismo serpeggiava non solo tra i soldati, ma anche nelle file degli ufficiali di completamento che allo scoppio del conflitto avevano dato prova di entusiasmo. La demoralizzazione e i fattori di crisi che minavano la compattezza degli eserciti al fronte erano diffusi anche fra la popolazione civile. Essa era da tempo prostrata dalle difficoltà di reperire i generi alimentari, da un incontrollato rialzo dei prezzi dei prodotti di più largo consumo e dalla riduzione

dei salari. In Italia il momento più carico di tensione sociale si manifestò a Torino. Qui la classe operaia, sottoposta ai durissimi ritmi della produzione di guerra in una situazione caratterizzata dalla scarsità dei generi alimentari, scese in piazza nell’agosto 1917, dando vita a un’azione di lotta e di guerriglia che fu presto repressa nel sangue dalle truppe regie. Agli inizi degli anni venti si era definitivamente compiuto il processo di spostamento del centro del mondo fuori dall’Europa, avviato sul finire dell’Ottocento. La guerra, che aveva richiesto uno sforzo immane sul piano economico e sociale, aveva accelerato il declino del vecchio continente, prosciugandone le risorse e portando la sua economia sull’orlo del tracollo. Alla fine della guerra l’Europa appariva un paese impoverito. La sua agricoltura non era più in grado di reggere i ritmi produttivi di altri paesi come gli Stati uniti o l’Argentina; il suo apparato industriale viveva una crisi gravissima. Il principale fattore di crisi dell’economia europea era legato alla necessità di riconvertire in tempi rapidi la produzione industriale ai beni di consumo e a macchinari necessari in tempo di pace: durante la guerra gli impianti industriali erano stati trasformati per produrre quasi esclusivamente enormi quantità di materiale militare. Alla fine delle ostilità, venendo a cessare la necessità di questa produzione, molte aziende non riuscirono a riconvertirsi e fallirono; altre riuscirono nell’impresa ma con grande difficoltà; in ogni caso questo processo sconquassò alle radici le strutture industriali di tutte le nazioni belligeranti e soprattutto di quelle sconfitte. La crisi innescata dalla riconversione produttiva durò più del previsto: fino al 1922 si protrasse un lungo ciclo negativo alimentato da diversi fattori. La riconversione produttiva si scontrò infatti con innumerevoli difficoltà che riguardavano: l’approvvigionamento dei capitali, scarsi e costosi, soprattutto per i paesi europei gravati dai pesantissimi debiti di guerra contratti con l’estero e in primo luogo con gli Usa; il sistema degli scambi, appesantito da una crisi costante delle tariffe doganali in tutti i paesi europei, nel vano sforzo di proteggere i mercati interni dalla concorrenza; l’inflazione, alimentata dall’enorme quantità di cartamoneta, messa in circolazione negli anni della guerra per sostenere i costi smisurati del conflitto, dall’indebitamento degli stati e dal ristagno produttivo, che produssero una progressiva perdita di valore delle monete europee e un parallelo rialzo di tutti i prezzi. Si trattava di una crisi economica di enorme portata, alimentata da una netta insufficienza dei mezzi di produzione che progressivamente trasformò l’Europa in un paese dipendente dall’estero. Ciò ebbe come conseguenza l’aumento della disoccupazione, che si concentrò soprattutto nei settori metallurgico, tessile e meccanico, maggiormente coinvolti nelle produzioni belliche. Ad aggravare le condizioni di vita dei ceti subalterni si aggiunsero l’inflazione e il crollo della lira. L’esito di questi processi fu l’esplosione di un ciclo di lotte operaie senza precedenti. Tra il 1918 e il 1920 si susseguirono oltre 3500 azioni di sciopero che coinvolsero centinaia di migliaia di lavoratori. Essi chiedevano la riduzione della giornata lavorativa, ancora di oltre 60 ore settimanali; aumenti di paghe per reggere l’aumento del costo della vita; condizioni di lavoro più umane; il riconoscimento delle "commissioni interne", organi di rappresentanza dei lavoratori dentro le fabbriche. L’acme della conflittualità operaia venne toccata tra il 12 giugno e il 7 luglio 1919, quando gli scioperi contro il rincaro dei generi alimentari esplosi a La Spezia si propagarono in tutta l’Italia centro-settentrionale e in Puglia. Il Psi e la Cgl apparvero incapaci di controllare e indirizzare il moto popolare, con il risultato che questa straordinaria mobilitazione sociale non riuscì a trovare sbocchi politici soddisfacenti. L’azione operaia perse incisività anche perché rimasta isolata non solo rispetto al mondo agrario, ma soprattutto rispetto ai ceti medi e alla piccola borghesia urbana, vittime anch’essi delle gravi conseguenze sociali della guerra e della ricostruzione. L’inflazione colpiva anche la piccola e media borghesia, gonfiata numericamente dallo sviluppo economico del primo ventennio del secolo. Li colpiva come percettori di stipendi e come piccoli risparmiatori. Infatti il relativo prestigio di cui la piccola borghesia aveva goduto nell’esercito, al quale essa aveva dato le leve degli ufficiali e soprattutto dei sottufficiali, mal si adeguava al grigio anonimato della vita quotidiana. Molti ex combattenti conobbero la disoccupazione e comunque il loro tenore di vita risultò notevolmente peggiorato: una situazione economica vissuta con esacerbato disagio se paragonata a quella delle classi proletarie, ritenute socialmente più basse. Le ambizioni frustrate sfociavano in una sorda opposizione alla classe operaia, che appariva in grado, con le sue lotte, di aumentare la fetta di reddito nazionale a sua disposizione e di minacciare i loro piccoli privilegi e il loro status di classi intermedie non proletarie. E le preoccupazioni non erano infondate perché i redditi degli impiegati, soprattutto pubblici, furono taglieggiati maggiormente, seppur in proporzione, rispetto a quelli degli operai. Queste frustrazioni sfociavano anche in risentimento verso la borghesia, ritenuta avida ed egoista. In Germania, l’inflazione divenne incontenibile: nel gennaio del 1921 un dollaro valeva 15,5 marchi, nel dicembre del 1922 era giunto a 1810 marchi. Le ragioni di questa spirale inflativa devastante risiedono principalmente negli interventi che lo stato mise in atto per far fronte alle enormi spese imposte dalla guerra. Lo stato, infatti, dilatò smisuratamente il debito pubblico attraverso l’emissione di un’enorme massa di cartamoneta: contemporaneamente dichiarò inconvertibile in oro la moneta cartacea e introdusse il corso forzoso cioè l’obbligo di accettarla, nonostante la sua inconvertibilità. Su questa situazione si abbatterono i risarcimenti per i danni di guerra: una somma gigantesca che lo stato cercò di pagare stampando ancora nuova moneta cartacea, innescando così una nuova spirale inflativa che si intrecciò con la precedente: ciò fece salire i prezzi alle stelle e precipitare in basso il valore della moneta sui mercati internazionali. Il 30 dicembre 1922 una sterlina aveva raggiunto il valore di 35 mila marchi. La Germania dovette dichiarare l’impossibilità di corrispondere i danni di guerra e chiese una sospensione dei pagamenti. La Francia rispose decidendo di passare all’offensiva: l’11 gennaio 1923 truppe franco-belghe invasero la Ruhr e la Francia si impadronì delle miniere di carbone. Il valore del mercato precipitò, mentre l’inflazione subiva un’ulteriore impennata, tanto che si resero necessari carrelli per trasportare la quantità di banconote che occorrevano per effettuare pagamenti anche irrilevanti: un francobollo arrivò a costare un milione di marchi e il 29 novembre 1923 una sterlina venne scambiata con 18 mila miliardi di marchi. Dopo la prima guerra mondiale l'uomo aveva dovuto assistere, quasi impotente, allo spettacolo desolante che essa aveva prodotto: distruzioni materiali, svalutazione monetaria in tutti gli Stati d'Europa, giovani vite spezzate, gravi crisi familiari e profonde lacerazioni delle coscienze individuali. Quella guerra che avrebbe dovuto risolvere tutti i problemi politici, sociali ed economici si concludeva con un'amara sconfitta dell'uomo, sia di quello vinto, sia di quello vincitore. Ci si trovava di fronte ad una realtà che portava con sé forti tensioni sociali, oscure paure per un incerto futuro e grave crisi dei valori morali. In questo scenario quasi apocalittico nasce una nuova corrente filosofica, l'Esistenzialismo, che vuole interrogarsi sul significato dell'esistenza umana e proporre nuove soluzioni che ridiano all'uomo quella fiducia in se stesso e quella dignità miseramente naufragata col predetto periodo della grande guerra. L'epoca dell'Esistenzialismo è, quindi, un'epoca di crisi. La filosofia esistenzialista considera l'uomo come un essere finito, gettato nel mondo, continuamente lacerato in situazioni problematiche ed assurde. È proprio dell'uomo nella sua singolarità che l'Esistenzialismo si interessa. L'esistenza è un modo di essere finito, essa è possibilità cioè un poter-essere. L'esistenza non è un'essenza, l'uomo sarà quello che egli ha deciso di essere. Il suo modo di essere è un poter-essere, un uscir fuori, un'incertezza ed un rischio. Pertanto al centro del pensiero esistenzialistico si trova il concetto di uomo singolo e finito e quello di libertà, intesa come impegno e rischio concreto. Alla radice dell'Esistenzialismo si trova il pensiero di Kierkegaard, il quale ha influenzato i maggiori rappresentanti di questa corrente: Heidegger, Sartre, Marcel e Jaspers. Il fulcro vivo della filosofia di Kierkegaard è precisamente l'esistenza. L'esistenza non è un atto unitario, bensì si articola secondo una scala di possibilità e di stadi, ciascuno dei quali si oppone al precedente e lo nega. Tra i diversi stadi non vi è, però, alcun passaggio necessario e in questo senso si può parlare di una dialettica qualitativa dell'esistenza, ossia di una dialettica che procede per salti. La prima possibilità è di vivere in modo estetico. In questo stadio l'uomo considera le contraddizioni della propria esistenza come qualcosa di accidentale, di esterno, e non è in grado di dominarle. L'uomo considera il mondo come uno spettacolo da godere, e si lascia vivere momento per momento, senza effettuare nessuna scelta e, quindi, senza legarsi stabilmente a nulla. Ma in questo modo la sua vita cade in una noia profonda che lo porta a fare, nello stadio etico, una scelta precisa e responsabile: ecco allora il formarsi di una famiglia, delle amicizie, delle relazioni sociali che danno un senso di serenità alla sua esistenza. Questa serenità però è bruscamente infranta quando si giunge al terzo stadio, quello religioso. Il singolo si trova, allora, al di sopra della legge morale perché si pone in un rapporto assoluto con Dio. Lo stadio religioso pone l'uomo in una situazione opposta a quella etica e gli impone di svincolarsene portandolo al peccato e quindi all'angoscia. L'angoscia non è il timore per qualcosa di determinato, ha come termine di riferimento il nulla ed è connessa alla libertà intesa come possibilità. L'angoscia è, perciò, il puro sentimento del possibile, è il senso di quello che può accadere e che può essere più terribile della realtà. L'angoscia caratterizza la condizione umana: chi vive nel peccato è angosciato dalla possibilità di pentirsi; chi si è liberato dal peccato vive nell'angoscia di ricadervi. Se l'angoscia è tipica dell'uomo nel suo rapportarsi al mondo, la disperazione è la colpa dell'uomo che non sa accettare se stesso nella sua profondità ed è una malattia mortale, un'autodistruzione impotente. L'unica salvezza possibile per l'essere angosciato e malato, che è l'uomo, sta nella fede. Secondo Kierkegaard, infatti, l'esistenza autentica è quella disponibile all'amore di Dio, quella di colui che non crede più a se stesso ma soltanto a Dio. Il problema dell'esistenza dopo Kierkegaard assume un'importanza rilevante per merito di filosofi quali Heidegger, Sartre, Marcel e Jaspers. Heidegger riprende ed amplia le tematiche già affrontate da Kierkegaard. Un tema dominante nella sua filosofia è quello dell'angoscia. L'angoscia non è, secondo Heidegger, come la paura generica, un timore di fronte a qualcosa di determinato, ma è ciò che si prova di fronte al completo annientamento dell'esistenza, di fronte al nulla ed è quindi quel sentimento che fa scoprire nella morte la possibilità decisiva dell'esistenza. I fondamentali modi di essere dell'esistenza umana sono l'Esserci, l'Essere nel mondo, l'Essere con gli altri e l'Essere per la morte. L'Esserci indica che l'uomo è sempre in una situazione ed è in un rapporto attivo nei suoi confronti. Essendo l'Esserci l'uomo è nel mondo, coinvolto in esso e nelle sue vicende. Trasformando il mondo, egli forma e trasforma se stesso. Se l'Esserci è nel mondo sarà anche con gli altri. Questi costituiscono, a loro volta, altri Esserci, tutti in relazione. L'esistenza vera, però, si comprende pienamente, secondo Heidegger, soltanto con l'Essere per la morte. La morte non è intesa come qualcosa di anonimo ma come il limite rispetto al quale occorre decidersi. È dunque nell'anticipazione della morte che l'esistenza scopre il proprio senso più autentico e questo è essenziale per comprendere il carattere temporale e storico dell'esistenza stessa. L'anticipazione della morte, il sapere di dover morire qualifica l'esistenza umana; presente e passato, infatti, hanno senso solo in rapporto al futuro, più precisamente a quel limite futuro che è la morte come annientamento dell'esistenza. Anche per Sartre, come per Heidegger, il nulla non indica semplicemente la negazione, ma è il termine essenziale per comprendere la vita della coscienza. La coscienza, che è l'uomo, è assolutamente libera e dunque la libertà è costitutiva della coscienza. L'uomo, una volta gettato nella vita, è responsabile di tutto ciò che fa. L'uomo è ciò che progetta di essere, poiché la sua libertà è incondizionata egli può mutare il suo progetto in ogni momento. La libertà di ogni uomo dipende dalla libertà dell'altro uomo, per cui ciascuno si rapporta all'altro come potenziale fonte di distruzione e di oppressione in una situazione di lotta e di conflitto. In Sartre l'analisi della coscienza porta dunque ad accentuare il senso della responsabilità dell'uomo davanti all'uomo, ma la responsabilità di cui parla Sartre è sostanzialmente minaccia e condanna reciproca. L'Esistenzialismo di Sartre è dunque un Umanismo in quanto riconosce che l'uomo è solo perché continuamente si progetta in rapporto all'altro uomo. In questo senso l'Esistenzialismo è anche ateismo, non perché si preoccupi di dimostrare o di affermare che Dio non esiste, ma perché cerca di persuadere l'uomo che nulla può salvarlo, neanche Dio, essendo l'uomo l'unico legislatore di se stesso e l'unico padrone del proprio futuro tutto ancora da costruire. L'existentialisme est une réflexion sur l'existence humaine qui pour Sartre est avant tout liberté: en effet, l'existence humaine diffère radicalement de celle des objets fabriqués. L’homme de Sartre est abandonné à être libre dans une vie vide et absurde. L’homme vit un un conflit avec les autres: "l’enfer-dira Sartre- c’est les autres". L’unique solution pour l’homme est l’engagement. L’idée de l’absurde est presentée dans La Nausée, où Roquentin ne peut vivre pour la violence que les objets créent en sa vie. L’existence n’a pas de sens et l’homme est en proie d’une angoisse existentielle. Pour l'homme, "l'existence précède l'essence: je pense, donc j’existe.. Quand Sartre disait: "le monde est le miroir de ma liberté" il signifiait que le monde m'obligeait à réagir, à me dépasser. C'est ce dépassement d'une situation présente, contraignante par un projet à venir que Sartre nomme transcendance. C'est parce que, comme le disait Pascal, nous sommes embarqués que les choix sont inévitables et l'on comprend que Sartre dise: "nous sommes condamnés à être libres". Choisir de ne pas choisir c'est encore faire un choix. Il faut ajouter que le choix est de tous les instants c'est à dire que nos libres décisions d'hier n'engagent pas celles de demain: à tous moments, je peux si je veux changer ma vie. Tant que j'existe je conserve la ressource d'orienter mon avenir et par là je "transfigure et je sauve mon passé". Ma liberté ne trouve sa limite qu'avec la mort. Dès que j'ai cessé d'exister, ma vie est transformée en destin, "elle n'est qu'une histoire toute faite pour les regards des vivants, être mort c'est être en proie aux vivants". Voilà la solution : il faut s’engager. La littérature pour Sartre est un engagement social et politique. Les personnages dans "HUIS CLOS" sont des morts vivants en enfer. Ils ne peuvent plus rien changer donc au fait qu'ils aient été lâches ou méchants.

"comme nous sommes vivants, nous confie Sartre en 1965, j'ai voulu montrer par l'absurde l'importance chez nous de la liberté, c'est à dire l'importance de changer les actes par d'autres actes. Quel que soit le cercle d'enfer dans lequel nous vivons, je pense que nous sommes libres de le briser. Et si les gens ne le brisent pas c'est encore librement qu'ils y restent. De sorte qu'ils se mettent librement en enfer".

 

Si je veux éviter cela, si je veux tout simplement devenir homme, il me faut agir mais que dois-je faire? Que puis-je savoir? Mon esprit me pousse à connaître et Sartre dit bien "connaître c'est s'éclater vers", s'élancer vers le monde pour lui donner un sens, pour le comprendre: non seulement l'homme n'est que "projet", mais au gré de ses découvertes et de sa volonté il change son projet, il se dépasse sans cesse lui même et les choses qui lui sont proposées. Il tema di una vita angosciosa che, in taluni casi, si esplica nella imposssibilità di comunicazione, che sottende in modo più o meno evidente, a tutta la produzione letteraria e maggiormente teatrale di Pirandello, costituisce un addentellato quasi inevitabile alla dialettica inesauribile tra vita e forma, che é alla base del relativismo gnoseologico . Carattere fondamentale dell'esistenza umana, per Pirandello, è infatti la "deiezione", cioè l’essere gettati nel mondo ignari della propria provenienza e del proprio destino, cioè ignari del senso ultimo della nostra vita. Affidato alla caducità del tempo e alla inevitabilità della morte, l’uomo assiste al mondo, senza sapere perché esiste. Di qui gli sente un senso di assurdità profonda. L’assurdo del vivere deve portare ad accettare l’angoscia dell’esistenza e lo scacco della mortalità dell’uomo. Negli scrittori del Novecento la crisi del ruolo dell’intellettuale si acutizza : lo scrittore vive frustrato nella sua ansia di conoscenza, travolto da violenze oppure si sente come un insetto privo di senso alla ricerca di un rapporto con il reale, che vive con inettitudine ed angoscia. La complessità del reale e l’arrocamento dell’interiorità tipica del personaggio novecentesco comportano tecniche di rappresentazione che insistono sulle rifrazioni e sugli echi che essi hanno nell’interiorità del soggetto. Il narratore dei romanzi novecenteschi è per lo più il narratore interno: un narratore che è anche protagonista, che presenta un universo limitato nella prospettiva dell’io narrante, di cui vengono registrati conflitti e lacerazioni. Il romanzo novecentesco è, pertanto, cronico-casuale. Importanti mezzi usati per la narrazione sono il flusso di coscienza, il Flashback e il monologo interiore. Il romanzo classico si proponeva di delectare e docere (divertire e insegnare), questo, invece, non insegna più nulla: presenta infatti degli antieroei, degli inetti. Pirandello, riprendendo l’idea che la vita è flusso continuo dal filosofo Bergson, egli ritiene che l’uomo cerchi di imprigionarla in una forma. Ma la vita non ha regole e l’uomo cerca convenzioni, che se guarda al di là di sé sono fasulle. L’uomo si trova allo specchio e scopre che quello che sa di sé è pochissimo: l’unica certezza è quella di sapere che la vita non ha logica e che cercare la logica nella vita è come cercare il sangue nelle pietre. La realtà é perpetuo movimento vitale, un eterno divenire, incessante trasformazione da uno stato all'altro, flusso continuo, incandescente e indistinto, come lo scorrere di un magma vulcanico. Tutto ciò che si stacca da questo flusso e assume "forma distinta e individuale" si irrigidisce e comincia, secondo Pirandello, a morire. Così avviene per la personalità umana: noi siamo parte indistinta nell'eterno fluire della vita, ma tendiamo a cristallizzarci in forme individuali, a fissarci in una realtà che noi stessi ci diamo o ci danno gli altri o il contesto sociale, in una personalità che vogliamo coerente e unitaria, ma che in realtà é pura illusione che scaturisce solo dal sentimento soggettivo che noi abbiamo del mondo. Ciascuna di queste forme, secondo cui siamo tanti individui diversi a seconda della visione di chi ci guarda, é una costruzione fittizia, una maschera, sotto la quale non c'é un volto definito, immutabile, ma un fluire indistinto e incoerente di stati in perenne trasformazione. Questa teoria della frantumazione dell'Io in una miriade di stati incoerenti, in continua trasformazione, senza un punto di riferimento fisso, é un dato storicamente giustificato: nella civiltà novecentesca entra in crisi sia l'idea di una realtà oggettiva, organica, univocamente interpretabile con gli schemi della ragione sia l'idea classica dell'individuo creatore del proprio destino e dominatore del proprio mondo, che era rimasta alla base della cultura della borghesia ottocentesca nel suo momento di ascesa. E' questo infatti il periodo dell'instaurarsi del capitale monopolistico che annulla l'iniziativa individuale, dell'espandersi della grande industria e dell'uso delle macchine che meccanizzano l'esistenza dell'uomo. In una prima fase, questi processi inducono a rifiutare la realtà oggettiva e a chiudersi gelosamente nella soggettività, ma poi anche questa progressivamente finisce per sfaldarsi: l'Io si disgrega, si smarrisce, si perde, i suoi confini si fanno labili, la sua consistenza si sfalda e si frantuma in una serie di stati incoerenti, nel naufragio di tutte le certezze. Pirandello é uno degli interpreti più acuti di questi fenomeni: la presa di coscienza di questa inconsistenza dell'Io suscita nei personaggi pirandelliani smarrimento e dolore. L'avvertire di non essere " nessuno", l'impossibilità di consistere un'identità provoca angoscia ed orrore, genere un senso di solitudine tremenda. VIceversa l'individuo soffre anche ad essere fissato dagli altri in forme in cui non può riconoscersi. L'uomo si "vede vivere" si esamina dall'esterno come sdoppiato, nel compiere gli atti abituali che gli impone la sua maschera e che appaiono assurdi, destituiti da un senso. Queste forme sono sentite come trappola , come un carcere in cui l'individuo si dibatte, lottando invano per liberarsi, tanto che Macchia ha parlato di " stanza della tortura" come condizione tipica dei personaggi pirandelliani: il teatro di Pirandello é tutto un seguito di stanze, il personaggio cerca sempre una stanza, sede dei suoi vizi, dei suoi peccati segreti, delle sue piaghe. Progressivamente diviene "stanza dell'essere" , da cui qualcuno, l'individuo claustrato, tenta di uscire e non ce la fa. E' una claustrofobia congenita, ossessiva, in cui il personaggio, essendosi perduto, non avendo più nulla di proprio, non potendo raggiungere la gioia di essere nessuno, rifiuta l'essere.E se esso esce dal carcere, invece di godere di quell'attimo di liberazione, pensa che, dentro o fuori, per lui é lo stesso. La società appare come un'enorme pupazzata,una costruzione artificiosa e fittizia che isola l'uomo dalla vita,lo impoverisce e da qui si evince il bisogno di autenticità, di immediatezza, di spontaneità vitale. Il personaggio pirandelliano è il risultato della scomposizione della persona romantica e borghese, del frantumarsi di quella unità psicologica e morale in un mosaico di apparenze ingannevoli e il suo dramma è nell'aver perduto per sempre la coerenza e l'organicità di quella protezione etica e psicologica. Tuttavia, per vivere, e cioè per rendersi rappresentabile, per eludere la solitudine del suo essere "personaggio senza autore", deve accettare l'umoristica realtà di una dimensione apparente e di questa i gesti, le vicende, le reazioni. E il suo strazio è di dover denunciare il suo vero dramma nell'unico linguaggio che gli è concesso, quello incoerente delle parti. Una delle forme della scomposizione che il personaggio deve vivere è la ragione, la più vana e ingannevole: questa smania razionale è il punto più alto e inesorabile del suo dolore, perchè la più relativa e falsa, la più tipica e illusoria. Non a caso i personaggi più alti di Pirandello sono "ragionatori", quelli ai quali, lungi dall'offrire la soluzione e la consolazione del loro soffrire, la ragione fornisce, nella misura spietata del paradosso, la coscienza più profonda e disperata del loro dolore, della loro angoscia. La ragione, che si esplica nella consapevolezza dell'inarrestabile bisogno di vita, per cui una persona è spinta a divenire "personaggio", e nella coscienza di vivere, è strumento di tortura, il più infelice perchè il più umano, ed è l'elemento culmine della disgregazione della persona e, insieme, il tentativo più disperato della sua finzione unitaria. Conoscersi è morire: la coscienza genera tragedie silenziose e la riflessione è fonte di dolore, così come la riflessione determina il passaggio dall'avvertimento al sentimento del contrario, dando vita ad un umorismo che ha in sè una venatura tragica, un riso aggressivo, freddo, convulso, quasi torturante che mortifica ogni oscuro desiderio di felicità. L'umorismo, infatti, in questo senso, come strumento critico, rientra perfettamente in questo teatro della tortura: manifestazione della "crudeltà pirandelliana" è per l'appunto far cadere l sue creature a oggetti di riso e di commiserazione. Il rifiuto della vita sociale dà luogo nell'opera pirandelliana ad una figura ricorrente, emblematica: "il forestiere della vita", colui che ha "capito il gioco", ha preso coscienza del carattere del tutto fittizio del meccanismo sociale e si esclude, si isola, guardando vivere gli altri dall'esterno della vita e dall'alto della sua superiore consapevolezza, rifiutando di assumere la sua parte, osservando gli uomini imprigionati dalla "trappola", con un atteggiamento umoristico, di irrisione e pietà. Ancor prima di testimoniare la frantumazione soggettiva dell'uomo, il tarlo della sua spaventosa relatività, si ha la "disgregazione oggettiva", il corrompersi delle strutture coesive dei rapporti umani, il violento crollare delle ipotesi storiche e sociali. Nel 1904 pubblica Il fu Mattia Pascal. E’ cosi l'emblema dell'uomo del primo novecento: mettendo incinte due donne ci si rivela come l'uomo che gioca con l'amore, che è possibilità d'interezza per la vita, e una delle principali vie del processo di autoidentificazione. Mattia si accorge però che è la vita a definirlo: si ritrova con due arpie in casa, in miseria, con un lavoro che non richiede alcuna capacità, si ritrova dunque entro la mediocrità; sì autodefinisce « inetto » A quel punto comincia a leggere filosofia, trovandosi « solo mangiato dalla noia » e queste sono due parole-chiave del romanzo. Va sulla spiaggia e si accorge della propria immobilità, che fa sgorgare la domanda: « perché ? ». A quel punto decide di campare alla giornata, adeguarsi alla società: gli nascono due figlie, ma queste due bambine si graffiano nella culla: il male abita nel cuore dell'uomo, se le due bambine si graffiano nella culla; non c'è innocenza neppure in un neonato. Una delle pagine più belle è quella in cui Mattia ricorda la nascita, la breve vita e la straziante morte delle due gemelle. « Erano mie »: in questo possesso-appartenenza. Mattia pare ritrovarsi, comprendere la propria identità, potendo dire « mio » d'un altra persona (le pagg. 86-87 sono intessute degli aggettivi possessivi e dei pronomi personali « Mia, mie, mi, me »). Figlia e madre muoiono però lo stesso giorno, e a quel punto accade la svolta dei romanzo: lui che aveva sempre barato con tutto, soprattutto con l'amore, non aveva però potuto barare con la carne della sua carne, ma anche questa gli era venuta meno. Mattia non può più vivere perché non ha legami né coi passato né coi futuro (né la madre, né la figlia). La sua è una fuga folle nella notte finché giunge a Montecarlo ove gioca e vince « una somma veramente enorme ». Ma subito dopo anche a Montecarlo si parla di noia, di schifo di vivere senza speranza. La sua storia ha però una svolta. Dopo aver vinto sta tornando a casa con le sue 82.000 lire e covando pensieri di rivalsa tipo: "adesso , faccio vedere io, strega d'una suocera, ciabattona d'una moglie!". Ma sulla via del ritorno in treno apprende la notizia giornalistica del proprio «suicidio»: il cadavere di uno sconosciuto è stato evidentemente scambiato per il suo! Si sente dunque libero, d'una libertà come sganciamento dai vincoli ambientali, storici, spazio-temporali. Questa è la grande trovata di Pirandello. Mattia finora non si conosceva, quindi Pirandello non poteva descriverne un'azione che ce lo presentasse dicendoci chi è e cosa vuole. Ma ora è ricco, anagraficamente libero e deciso a ricominciare la vita come uomo autofabbricato: « Stava a me: potevo e dovevo esser l'artefice del mio nuovo destino » (p. 114). Perfetto esempio dunque di potenziale superuomo. Ma la sua storia non giunge a buon fine: Mattia Pascal cerca la felicità ma si accorge di non poterla raggiungere. Anche Pirandello, vicino ideologicamente all'esistenzialismo, s'interroga sul senso della vita, Vitangelo Moscarda in Uno Nessuno e Centomila, dopo la riflessione della moglie sul suo naso, inizio ad interrogarsi sul senso della vita. L'idea di vedersi vivere diviene insopportabile : "non potea vivendo, rappresentarmi a me stesso negli atti della vita (...) vedermi come gli altri mi vedevano; pormi davanti al mio corpo e vederlo vivere come quello di un altro (...) quando mi ponevo davanti ad uno specchio, avveniva come un arresto in me: ogni spontaneità era finita, ogni gesto appariva a me stesso fittizio e rifatto. Io non potevo vedermi vivere ". Ciascuno di noi è divenire, perché la vita è casualità. Ciascuno di noi è uno, nessuno e centomila: siamo tanti quanti coloro che ci osservano. Pirandello, per il quale la storia è una prigione, ha liberato Mattia dalla storia e gli potrebbe chiedere: « adesso mostrami cos'è l'uomo nuovo, di che cosa ha sete quest'uomo contemporaneo cosi triste? »; ma non lo fa, perché anche lui non sa che cosa sia l'uomo nuovo, o meglio lo sa solo negativamente; ha una coscienza del limite strutturale presente nel cuore umano, ma non sa poi indicare la strada verso l'infinito; contesta la strada superomistica dannunziana e non sa però trovarne altre. Ne esce così un nuovo Mattia sgradevole e brutto, ancor più del primo, diverso nell'apparenza ma identico nella sostanza. Così Mattia è sempre più un « forestiero della vita », è sempre in difesa, costringe per due anni la sua vita ad una serie di cautele sempre più inutili, soffoca i suoi sentimenti; è il personaggio negativo, è colui che dice più «no» possibile. Ma è «sospeso in un vuoto strano», la sua ricerca della felicità porta all'infelicità. La conclusione de « Il fu Mattia Pascal » è il ritorno di Mattia al suo paese: li ritrova la moglie risposata con Mino, l'amico di gioventù, e madre di una bambina; non vuole disturbare il loro amore; semplicemente va ogni tanto a mettere dei fiori sulla propria tomba, e il libro, che si era aperto con la frase « io so una sola cosa: che mi chiamo Mattia Pascal » si chiude con una frase simile: « io sono il fu Mattia Pascal». Forse in questo « Pascal » è nascosto il dramma di Blaise Pascal che trecento anni prima arriva alla fede; dramma di una domanda che ora non sa più approdare ad una certezza. Per un attimo Mattia, alias Adriano Meis, pare trovarla nel suo incontro con Adriana, a Roma, ma non può sposarla (per l'anagrafe egli è morto!): ritorna al paese, ma la moglie non è più sua, come non lo erano più state la madre, la figlia, se stesso. E’ solo e si sente « sperduto ». Una drammatica tensione si consuma tra la vita e l'essere che vuole se stesso e vuol darsi una forma, la vita è movimento verso la morte; in ogni forma vitale c'è un senso di finitezza. Pirandello pensa che, perché l'essere viva, bisognerebbe che uccidesse di continuo ogni forma ( Mattia Pascal diviene Meis), ma senza forma l'essere non vive (Adriano Meis è un fu Mania Pascal). Le idee, i codici sono solo maschere e tentativi di cristalizzazione del flusso vitale interno. Non resta all’uomo che diventare pazzo come Enrico IV o natura come Vitangelo Moscarda. Vitangelo Moscarda rappresenta l’inetto, il pazzo, che fuoriesce dalla storia del suo tempo. Nel relativismo politico, a cui Moscarda risponde con la fuga, al termine della prima guerra mondiale, si trovò il pensiero politico italiano. L'uomo di Pirandello sperimenta e scopre l'incomunicabilità dei suoi pensieri, la solitudine dei suoi sentimenti, l'indifferenza ostile degli altri, la falsità delle loro proteste di solidarietà e l'enfasi dei loro patti artificiosi. L’Esistenzialismo si sviluppa in un’Europa che negli anni 20-30 è essenzialmente dittatoriale, ove la libertà personale è negata dal sistema politico Perciò l’affermazione del Fascismo in Italia e del Nazismo in Germania sono l’aperta contraddizione di ciò che l’esistenzialismo teorizza: questi regimi danno un’ideologia forte, attivista e fortemente utopica dell’uomo. Il fascismo fu un fenomeno che non aveva precedenti diretti nel passato per l’applicazione sistematica e generalizzata del metodo della violenza, che pretendeva autogiustificarsi su un’ideologia dell’azione e della vitalità del diritto del più forte. Sotto questo aspetto fu un fenomeno nuovo. L’idea fascista era quella che riteneva che lo stato dovesse essere totalitario ed onnipotente. Il nuovo Stato, così come i fascisti lo concepirono , cercarono di realizzare, mirava dunque ad assorbire, totalmente in se stesso gli individui come i gruppi sociali, le comunità locali come le voci della cultura, le Chiese come le correnti d'opinione. Questo Stato assumeva pertanto gli aspetti di un nuovo idolo, di un dio terreno, a cui tutto doveva essere sacrificato o subordinato. Ma il fascismo non si sarebbe mai imposto se si fosse fatto a capo di una serie di tendenze illiberali e antidemocratiche. In Italia la crisi del partito liberale, le lotte dei socialisti fra riformisti e minimalisti creò la possibilità di questa forza nuova. Di certo il fascismo subì e forse ebbe la sua matrice ideologica nel sindacalismo rivoluzionario di Alceste De Ambris, nella utopia populista dell'impresa di D’Annunzio, nella cultura futurista di Marinetti con l’esaltazione della violenza e della velocità. Anche se Mussolini partì da una visione squadrista, di lotta alla monarchia ed alla Chiesa, fondando i Fasci di combattimento nel 1919, poi si avvicinerà alla filosofia di Gentile, conservatrice e reazionaria. Per questo motivo il fascismo fu alimentato e sostenuto da una parte considerevole di forze conservatrici e liberali. Il regime fascista proponendosi dapprima come difensore della Patria e restauratore della dignità nazionale e poi ben presto proclamando la perfetta identità fra se stesso e lo stato, non doveva lasciare scampo ad alcuna forma di opposizione diretta. Ma gli anni che scorsero dal 1924 al 1928 costituiscono un periodo storico particolarmente caratteristico anche per il nostro paese - l'Italia -, in cui il regime dittatoriale fascista raggiunse una solidità che a molti sembrò indistruttibile. Nel suo discorso del 3 gennaio 1925, Mussolini aveva dichiarato che, in 48 ore, egli avrebbe chiarito la situazione politica interna su tutta l’Italia: i partiti politici (ad eccezione di quello fascista), furono sciolti; i giornali furono dapprima sequestrati periodicamente, poi imbrigliati, tormentati, e rovesciate le loro direttive, ridotti all'impotenza; e, se resistevano, addirittura soppressi; oppure, se si trattava di quotidiani di speciale autorità, costretti a vendersi al Partito unico. Tutte le associazioni ancora tollerate furono sottoposte al controllo delle autorità di Pubblica sicurezza. Ora il fascismo si dà alla pazza gioia di fare della libertà e della Costituzione strumento asservito alla sua volontà di dominio e di potere. La triste catena degli anelli di ogni dittatura si va snodando un giorno dopo l'altro. Viene riesumata la pena di morte, che era gloria italiana avere da più di un secolo abolita, e tale feroce castigo è riservato appunto a colpire i colpevoli di crimini politici. I tribunali ordinari con le loro garanzie per gli imputati non sono ritenuti adatti a giudicare questo genere di reati, per cui si istituisce, fuori di ogni norma e di ogni garanzia, un tribunale speciale, che non soggiace ad alcun diritto di appello. Le carceri si riempiono di comunisti, o cosi detti comunisti, molti dei quali sono degli infelici appartenenti a qualsiasi partito o di nessun partito, ma che hanno mostrato di non gradire il regime attuale e di arrischiarsi a censurare talora qualche punto della sua opera politica o amministrativa. Risorge la condanna al confino per reati politici; lo spionaggio e la denunzia ritornano all'ordine del giorno, e le bilance dei diritti e dei doveri civici sono deliberatamente falsate. L'intolleranza, il diritto alla persecuzione sono (si dichiara apertamente) la fondamentale ideologia della dittatura italiana. Quella che viene, definita la nostra feroce volontà totalitaria sarà perseguita con maggiore ferocia; diventerà veramente l'assillo e la preoccupazione dominante della nostra attività : di fascistizzare la nazione, perchè italiano o fascista sia la stessa cosa... Intransigenza assoluta, ideale e politica. Il fascismo rivoluzionario si oppose al fascismo, che sposò le tesi più tradizionali : dell’esaltazione della patria e della cristianità. Il fascismo nacque e seppe sfruttare le tendenze illiberali ed antidemocratiche già presenti nella cultura del Novecento, diffusasi in vasti settori della media e piccola borghesia, percorsi da una vasta crisi di identità e di sbandamento. Il fascismo fu sostenuto anche dalle classi conservatrici. Gli storici distinguono due fasi all'interno del fascismo : quella gentiliana (1922-1929), e quella cattolico-reazionaria che culminò con i Patti Lateranensi ( dal 1929 al 1940). Se nei primi anni del regime fascista (1922-25), la libertà era tollerata, il 25 Dicembre del '25 la cultura antifascista e la libertà di stampa sono vietate dalle leggi eccezionali sulla Stampa. Secondo la formula mussoliniana di "tutto nello Stato, niente fuori dello Stato, nulla contro lo Stato" la cultura subì attraverso una serie di operazioni una progressiva fascistizzazione; la fascistizzazione integrale della stampa non tese ad eliminare, ma, a fascistizzare i quotidiani: del Corriere deIla Sera e deIla Stampa , per esempio , furono modificate integralmente le linee. In campo economico il fascismo non solo non inventò mai nessun nuovo sistema economico, ma anzi piegò la sua politica economica alle esigenze imposte dalla congiuntura, tant'è che non è nemmeno possibile indicare una linea di politica economica che lo ha contraddistinto durante tutto il ventennio. Il Governo Mussolini ebbe la fortuna di esordire in un momento favorevole: all’inizio di un nuovo trend ascendente dell’economia (a livello internazionale si intensificano gli scambi). I primi anni del governo fascista furono caratterizzati da una schietta politica economica liberista, incarnata dal ministro delle finanze De Stefani. Dal 1923 al 1925 si registrò la più ampia applicazione del liberismo economico: si ridussero gli stanziamenti per le spese sociali, le cooperative e gli enti locali. I salari operai dal 1925 accusarono una sensibile flessione. Il rovescio della medaglia dell'incremento produttivo fu l'inflazione, il deficit di bilancio e la perdita di valore della lira. Nel 1925 De Stefani venne sostituito dal nuovo ministro Giuseppe Volpi. Il nuovo ministro fu protagonista di una svolta: con lui venne inaugurata la fase protezionista basata sulle politiche deflattive e di stabilizzazione della moneta, oltre che da un maggiore intervento dello stato nelle dinamiche economiche. La creazione del dazio sui cereali (nel 1925), volto a favorire il settore cerealicolo, venne accompagnata da una imponente campagna propagandistica (la "battaglia del grano") volta a sostenere lo sforzo del regime per raggiungere l'autosufficienza nel settore cerealicolo. L'impegno, protrattosi per tutto l'arco del ventennio, venne alla fine parzialmente coronato da un successo, con un ottimo aumento della produzione cerealicola sostenuta dal protezionismo fascista anche a discapito di altri settori. Un anno dopo (1926) un nuovo obiettivo venne posto come centrale dal regime per l'economia italiana: fu quello di stabilizzare la lire ancorandola alla "quota novanta" (90 lire per una sterlina). In un anno anche questo risultato venne raggiunto: la lira recuperò il suo potere d'acquisto. La politica deflazionistica adottata da Volpi ebbe successo e i prezzi calarono. A godere di questi frutti non furono però i lavoratori, che invece continuano a vedersi tagliare i salari. Inoltre il maggior peso acquistato dalla lira sui mercati mondiali rese meno competitivi i prodotti d'esportazione italiani, con un conseguente calo della produzione. Questo non fece altro che favorire la grande concentrazione aziendale. La grande crisi del 1929 ebbe effetti negativi anche sull'economia italiana. Il regime allargò le proprie competenze trasformandosi in un vero e proprio stato imprenditore e banchiere. Le grandi "banche miste" (che controllavano buona parte delle quote azionarie delle maggiori industrie italiane), colpite dalla crisi, rischiarono di portare al collasso l'intero sistema creditizio nazionale. Il governo creò allora l'Imi (istituto mobiliare italiano, 1931) che sostituì le banche nel sostegno alle industrie in crisi e, due anni più tardi l'Iri (istituto per la ricostruzione industriale). Questa tendenza politica di intervento dello Stato nell’economia fu teorizzata da Keynes, che indicò proprio nell’intervento dello Stato a sostegno della domanda la soluzione del problema. Secondo Keynes i soli meccanismi del mercato non sono sufficienti per cercare di ottenere in un sistema economico la piena occupazione dei fattori produttivi e in particolare del fattore lavoro. Se non interviene la politica economica a correggere le disfunzioni, spesso nel sistema capitalista si realizza un equilibrio tra la domanda e l'offerta globali caratterizzato da una sottoccupazione dei fattori. All'origine delle crisi spesso è il sottoconsumo: all'aumentare dei redditi infatti nelle economie avanzate i soggetti economici tendono ad aumentare i consumi in misura meno che proporzionale; viceversa i risparmi aumentano in misura maggiore, senza assicurare necessariamente un aumento degli investimenti produttivi nella stessa misura. Il mercato della moneta infatti non garantisce automaticamente l'uguaglianza tra risparmi e investimenti così come era sostenuto invece dalla teoria tradizionale. D'altra parte queste due grandezze non dipendono solo dalle variazioni del tasso di interesse: i risparmi dipendono soprattutto dal livello del reddito e tendono ad aumentare in misura più che proporzionale rispetto all'aumento dei redditi; gli investimenti invece dipendono molto dalle aspettative di profitto degli imprenditori: le imprese pertanto, anche in presenza di bassi tassi d'interesse, non sono indotte ad investire se non hanno soddisfacenti aspettative sui rendimenti futuri. Un basso livello di investimenti inoltre può far aumentare la disoccupazione che a sua volta contribuisce a provocare una diminuzione della domanda di beni di consumo. Si genera quindi spesso una carenza di domanda aggregata complessiva (consumi + investimenti) che provoca le crisi, caratterizzate da una sovrapproduzione (in pratica le imprese non riescono più a collocare sul mercato ciò che producono). Per affrontare in maniera adeguata tali situazioni è necessario l'intervento dello stato attraverso adeguate misure di politica economica e in particolare di politica finanziaria anticongiunturale (incremento delle spese pubbliche, da finanziare anche col ricorso all'indebitamento pubblico e diminuzione del carico fiscale, soprattutto per i soggetti meno abbienti che hanno una maggiore propensione marginale al consumo). Secondo Keynes è necessario quindi abbandonare i principi del laissez – faire (lasciar fare) che caratterizzavano la teoria economica classica. Le tesi sostenute da Keynes contengono inoltre anche forti implicazioni sul piano sociale in quanto gli interventi pubblici volti a favorire un incremento della domanda dei beni di consumo presuppongono che nei sistemi capitalistici il reddito sia distribuito in maniera più equa tra i vari soggetti economici. Una grande concentrazione di reddito nelle mani di pochi d'altra parte provoca un aumento della propensione al risparmio, che potrebbe non essere utilizzato ai fini produttivi (in sostanza si tradurrebbe in un fattore "non occupato"), con conseguente crisi economica derivante da una domanda globale insufficiente. Sotto molti aspetti quindi la teoria keynesiana può essere considerata "rivoluzionaria" rispetto alla teoria economica tradizionale (classica e neoclassica). Se le democrazie occidentali reagirono alla crisi del ’29 in chiave Keynesiana, da parte delle dittature socialnazionali l’intervento statale nel reggere il timone dell’economia fu ancora più drastico. Per Marx, invece, il regno della libertà comincia solo là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna: è libertà dal lavoro, dalla costrizione esterna, 'l'uomo produce veramente solo libero dal bisogno', dalla necessità naturale della produzione materiale; la libertà comincia dove il lavoro finisce; la libertà è nel tempo libero. Partendo dal presupposto che la situazione normale del regime capitalistico è un livello variabile di occupazione, le teorie di Keynes in contrasto con le teorie classiche tradizionali che consideravano normale l'equilibrio stabile al livello di pieno impiego, hanno lo scopo di analizzare le forze che determinano il volume complessivo dell'occupazione e della produzione e di spiegare l'esistenza di una disoccupazione involontaria permanente. Se per gli economisti classici la disoccupazione, considerata solo come volontaria, era il risultato di un'insufficiente elasticità dei salari, per Keynes essa deriva da una deficienza della domanda effettiva totale che determina un equilibrio di sottoccupazione. Poiché la domanda di beni di consumo, retta dalla legge della propensione al consumo, tende a diminuire in valore relativo all'aumentare del reddito, la domanda effettiva determinerà un incremento dell'occupazione solo se aumenteranno gli investimenti. La propensione all'investimento, a sua volta, dipende dal rapporto fra la redditività prevista dei nuovi investimenti (efficienza marginale del capitale) e il tasso di interesse legato al grado di preferenza per la liquidità e alla quantità di moneta. Tre fattori, quindi, possono causare una sottoccupazione nel capitalismo contemporaneo: la diminuzione relativa delle spese per beni di consumo che deriva dalla disuguaglianza nella distribuzione del reddito, l'instabilità e la tendenza al declino nel lungo periodo dell'efficienza marginale del capitale, dovuta al decremento dei rendimenti presunti, e un livello troppo alto del tasso di interesse che, in quanto determina l'efficienza marginale del capitale, provoca la diminuzione della propensione all'investimento. Non esistendo alcun rimedio automatico alla disoccupazione, secondo Keynes è compito dello Stato tentare di raggiungere e di mantenere la piena occupazione mediante un'adeguata politica economica. Tale politica deve consistere nell'elevare la propensione al consumo mediante l'adozione di un sistema di tassazione progressiva tale da redistribuire più equamente il reddito; nel favorire gli investimenti privati diminuendo il tasso di interesse; nell'incrementare gli investimenti pubblici particolarmente nei periodi di depressione. La rivoluzione portata da Keynes nella teoria economica, sovvertendo i princìpi ormai cristallizzati dell'economia classica tra cui quello del laissez faire, va ben oltre la spiegazione della sottoccupazione e gli enunciati di politica economica. La nota originale del pensiero keynesiano consiste in modo particolare nel metodo di analisi: per il suo carattere "generale" (in opposizione alla teoria classica che considerava solo il caso "particolare" dell'equilibrio stabile al livello di piena occupazione), per il suo uso delle quantità globali (in contrapposizione al punto di vista microeconomico), il fatto di insistere su determinate variabili (consumo, investimenti, tasso di interesse). D'altra parte Keynes ha influenzato non solo la teoria ma anche la politica economica pratica, soprattutto nell'ambito congiunturale e dell'azione contro la disoccupazione e l'inflazione. Keynes ha inventato una nuova branca della teoria economica, la macroeconomia, ossia lo studio del comportamento del sistema economico nel suo complesso, e non lo studio del comportamento di individui, imprese o settori industriali. Fra le molte definizioni date d’inflazione, secondo le teorie recenti, si parla di eccedenza della domanda globale sull’offerta globale: cioè ci si riferisce ai due fenomeni congiunti dell'aumento dei prezzi e alla diminuzione del potere d'acquisto della moneta, causati spesso dal disordine economico e dai turbamenti sociali. L’inflazione è, secondo Keynes, l’aumento del potere di acquisto al quale non segue il simultaneo aumento della produzione complessiva. Invece oggi si ritiene in genere come aumento dei prezzi, a causa dell’eccessiva circolazione di moneta. A testimonianza di ciò l'economista Irving Fischer elaborò nel XIX° sec. la teoria quantitativa della moneta, nella quale egli affermò che un aumento della quantità di moneta in circolazione provocava un aumento del livello generale dei prezzi, se restano ferme le altre grandezze del sistema. Ciò è espresso dalla seguente formula V*M=p*T ove :

V= velocità di circolazione della moneta,

p= livello generale dei prezzi,

M= numero unità monetarie circolanti,

T= ammontare complessivo degli scambi effettuati in un anno.

Opponendosi chiaramente alla teoria quantitativa, la legge marxista della circolazione monetaria enunciava che la quantità di oro circolante dipendeva dal valore delle merci. Invece, il valore dei biglietti non poteva dipendere che dalla loro stessa quantità in circolazione. Finché questa quantità corrispondeva alla quantità di oro che avrebbe normalmente circolato il biglietto conservava il valore che gli era assegnato dalla sua funzione; ma se questa legge di proporzione era violata, di conseguenza se la quantità di biglietti superava i bisogni della circolazione delle merci, e vi era "creazione" di moneta, risultante da una causa che non fosse economica, questa massa eccessiva di biglietti continuava a non rappresentare che la quantità di oro economicamente indispensabile. Cioè se la quantità di biglietti raddoppiava, ogni unità monetaria carta non rappresentava che una quantità di oro eguale alla metà della quantità primitiva. Con una circolazione di oro, l'oro in soprappiù era semplicemente tolto dalla circolazione; invece i biglietti in soprappiù, se non potevano essere convertiti in oro erano convertiti in merci; la richiesta di queste raddoppiava artificialmente e di conseguenza anche i prezzi raddoppiavano. C'era inflazione di biglietti perché la loro emissione oltrepassava le necessità economiche e si effettuava nel vuoto esattamente come nel caso di emissione di un assegno su un conto bancario in cui non esistesse un centesimo; con questa differenza, tuttavia, che il pagamento dell'assegno bancario sarebbe rifiutato mentre la carta monetata aveva un corso forzoso. Una circolazione "sana" di biglietti non poteva dunque muoversi che in limiti strettamente determinati e questa stessa condizioni costrinse a dar loro una consacrazione legale che non poteva essere imposta che all'interno dei confini nazionali. L'oro, come mezzo di circolazione, prese così due forme monetarie che si opposero sempre più con l'evoluzione stessa del Capitalismo: una, la sua forma pura, materiale che continuava ad essere il solo aspetto sotto il quale esso appariva come strumento internazionale degli scambi e dei pagamenti (indipendentemente da mezzi più estesi come la lettera di cambio); l'altra, la sua forma carta che circolò nell'interno di ogni nazione capitalistica dove poté identificarsi con l'oro nei limiti di una normale emissione, mentre il suo valore internazionale si regolò col corso del cambio. Dopo il fallimento della filosofia gentiliana intorno al 1929, il fascismo si avvicinò al cattolicesimo. Verso la Chiesa Cattolica il fascismo fece una serie di gesti significativi di benevolenza talora più formali che sostanziali , ma non per questo meno graditi alle gerarchie ecclesiastiche. Ricolloca il crocifisso nelle scuole e negli ospedali , stabilisce con la riforma Gentile l'obbligo dell'insegnamento religioso nelle scuole elementari ( anche se propedeutico alla filosofia) e introduce l'esame di stato. Sottopone a pressioni le minoranze religiose non cattoliche e salva dal fallimento le banche cattoliche. Assume in generale , un atteggiamento ufficiale di rispetto e deferenza verso la Chiesa, proprio quando più violente si facevano, le persecuzioni contro le organizzazioni del movimento cattolico e i sacerdoti antifascisti. Lo scopo immediato di Mussolini era quello di dimostrare la inutilità del Partito Popolare e di valersi del ricatto e della violenza per vincere eventuali opposizioni della Chiesa e del Vaticano. Con il fallimento della filosofia gentiliana , il fascismo non avendo una base ideologica e consensuale forte, si spostò piano piano verso la Chiesa e il Cattolicesimo. Cercò così di usare la Chiesa, come schermo protettivo dietro cui mascherarsi. L'11 Febbraio 1929 furono stipulati i Patti Lateranensi, con cui veniva risolta la lunga opposizione fra Stato Italiano e Chiesa, dopo la presa di Roma a cui era conseguito il Non Expedit" di Pio IX. I Patti riconoscevano la sovranità e l'indipendenza del Papa : il concordato inoltre prevedeva le clausole di riconoscimento civile del matrimonio religioso, l'obbligo dell'insegnamento della Religione Cattolica nelle scuole medie in quanto "fondamento e coronamento dell'istruzione pubblica" il divieto ai sacerdoti apostati di insegnare nelle scuole pubbliche, il riconoscimento da parte statale delle organizzazioni d’Azione Cattolica in quanto esse svolgevano le attività, al di fuori di ogni partito politico. Nel complesso i Patti Lateranensi attuarono una soluzione. Ma il trattato rappresentava una effettiva svolta rispetto alla tradizione liberale. Per la Chiesa la Conciliazione significò la garanzia di un proprio spazio d’azione nell'uniforme ed oppressiva realtà dello Stato fascista. Lo stato fascista apparentemente si manifestò come religioso, ma poi fu laico. Il cattolìcesimo e i cattolici , come ho cercato di dimostrare, ebbero una notevole influenza nel periodo fascista, essendo legati ad un'etica universale: Invece l’ideologia del fascismo era parziale e pasticciata, con la combinazione dell'obbedienza cieca, cioè al di qua del libero arbitrio e delle sollecitazioni all'odio dei nemici con il sacro dovere dell'immolazione per la patria per il partito, e il duce. Questo dimostra come il fascismo non abbia avuto una ideologia propria, ma si basi su idee giolittiane e crispiane all'inizio, e poi, su riletture e strumentalizzazionì del pensiero cattolico. Per questa ragione esso crollò come un castello di carta. Non si creò una nuova cultura, ma il modo fascista. La cultura fascista " finì per presentarsi come una religione. La fonte della mistica era Mussolini : si può parlare del fascismo così come di una cultura sotto l’aspetto mistico. Il Regime cercò in esso un'identità culturale capace di raccogliere il consenso unanime della nazione. Mussolini infatti adoperò la Chiesa sul fronte interno del sentimento religioso italiano e considerandola come strumento di governo. Il fascismo si occupò fin dagli inizi della formazione dei bambini e dei fanciulli, attraverso l'Opera Nazionale Balilla, divisa in "figli della lupa" (per bambini di 6-7 anni), "balilla" (fra gli 8-14) e gli "avanguardisti" (dai 15-18). Per chi proseguiva gli studi c'erano i Gruppi Universitari Fascisti, per gli altri la Gioventù Italiana del Littorio. Lo sport e l'educazione giovanile erano un mezzo per favorire lo sviluppo di una cultura fascista. Naturalmente, il fascismo affrontò, per la prima volta dall'Unità d'Italia, il problema della preparazione di un corpo insegnante di educazione fisica. Infatti, venne istituita al Foro Italico la Scuola Superiore di Magistero per l'educazione ginnico-sportiva. Mussolini stesso incoraggiò e sostenne l'impegno degli atleti italiani nelle competizioni internazionali, in occasione delle Olimpiadi (1936) arrivarono anche prestigiosi risultati. La nazionale di calcio si distinse e in quegli anni si aggiudicò due titoli mondiali (1934 e 1938). Erano gli anni ruggenti del calcio italiano. La nazionale guidata dall'incomparabile Vittorio Pozzo, che, prima di ogni gara, radunava i giocatori e tutti insieme cantavano l'inno del Piave. Era l'epoca dei Combi, Monzeglio, Allemandi, Ferraris IV, Monti, Bettolini, Guaita, e Meazza, Schiavi, Ferrari, Orsi, tutti entrati nella leggenda. Il regime, proprio in quegli anni, allo scopo di rinforzare 'la squadra azzurra, concesse di allineare anche i cosiddetti oriundi, ovvero gli italo-americani (in prevalenza italo-argentini) che giocavano nel nostro campionato. Insomma, il fascismo si adoperò fino al suo tramonto, anche negli anni terribili della guerra, per promuovere e consolidare I'attivitá sportiva, deliberando nel novembre del 1941 di equiparare l'Educazione Fisica a tutte le altre materie scolastiche. Ad ogni buon conto il regime mussoliniano anziché seminare con serietà l'amore dello sport, esaltò i valori sportivi. Così, il dopolavorista o il giovane faceva attività ginnica, ma, appena smessa la tuta, correva allo stadio o ai bordi delle strade o delle piste per assistere a manifestazioni agonistiche trasformandosi in tifoso. In effetti, in quel periodo, lo sport italiano sembra disporre di un elevato numero di campioni nelle varie discipline e specialità. Campioni che monopolizzavano l'attenzione e l'interesse generale con le loro vittorie e i loro record, conseguiti in ogni parte del mondo. Non c'era ancora la tv e la radio era ancora a livello pionieristico, ma i giornali sportivi (alla Gazzetta dello Sport, il primo sorto sul finire del XIX secolo si aggiunsero il Littoriale poi Corriere dello Sport e Stadio, quindi Tuttosport del leggendario Carlin e di Renato Casalbore) provvidero ad ammantare di un mitico alone gli eroi nazionali paragonandoli spesso a dei dell'Olimpo facendo in modo che la gente li guardasse più con vivace passione e persino con fanatismo che con ammirazione. Sognando di inseguire le gesta di Lanzi o BeccaIi, in atletica, di Meazza il Balilla del gol, o Silvio Piola (morto pochi mesi fa, ormai novantenne), la gente si dedicava allo sport, ma quel che più aveva valore era che in questo modo non si occupava di politica, lasciando che il regime padrone del campo spegnesse ogni parvenza di democrazia. Il Duce vide anche nello sport il lato politico. Verso l’atletica leggera ci fu un grandissimo entusiasmo. All'interno lo sport indubbiamente era, ed é nemico delle lotte di classe, affratellatore e livellatore di gente proveniente da vari strati sociali, tutta fusa da una passione comune e tesa verso la medesima meta. Inoltre costituisce con i suoi spettacoli il diversivo migliore per la gioventù, altrimenti convogliata verso attività di partiti politici. Quando un atleta italiano andava fuori dai confini della patria a gareggiare non era altro che un ambasciatore straordinario del Regno. II 28 ottobre 1930, parlando davanti ai ruderi del Circo Massimo, in occasione di un raduno di atleti di tutta Italia, Mussolini ebbe a proclamare, con il solito tono enfatico: "Ricordatevi che quando combattete oltre i confini, ai vostri muscoli e soprattutto al vostro cervello, é affidato in quel momento un sacro compito, l'onore e il prestigio della Nazione". Tipico di tale mentalità é quanto accadde a Los Angeles, alle Olimpiadi del 1932, dove gli azzurri conquistarono dodici medaglie d'oro, dieci d'argento e undici di bronzo, a tal punto che I'Italia nella classifica per nazioni si piazzò subito dietro gli Stati Uniti. Per comprendere a fondo quale grande significato ebbero queste Olimpiadi per il regime, sembra giusto scorrere i commenti dei giornali. Capisaldi ideologici dell'atteggiamento tanto retoricamente favorevole alla disciplina sportiva furono: I'esaltazione indiscriminata della forza e del coraggio, l'imperativo a imitare il Duce, uomo politico e al tempo stesso atleta capace egli stesso di praticare qualsiasi sport, I'educazione fisica in senso para e pre-militare, infine la superiorità della "razza italiana". Fondamentale per il movimento appare l’apparato locomotore. È formato da muscoli volontari, che si collegano alle ossa mediante tendini o aponeurosi, dalle ossa e dalle articolazioni, che permettono lo spostamento di un segmento osseo rispetto a un altro. Il nostro apparato locomotore è formato essenzialmente da un sistema di leve, cioè le ossa, che al loro volta vengono messe in funzione da strutture che si contraggono, cioè i muscoli. Le ossa costituiscono nel loro insieme il sistema scheletrico, mentre i muscoli formano il sistema muscolare. Il termine scheletro deriva dal greco e significa corpo disseccato. Esso costituisce un’impalcatura rigida che impedisce al corpo di afflosciarsi sotto il proprio peso, protegge gli organi interni, serve come base all’attacco dei muscoli e permette cosi il movimento delle varie parti del corpo. E’ formato da sostanze di diverso tipo: inorganiche, come il calcare, la silice e il fosfato di calcio, o organiche, come la chitina. L'uomo possiede più di 600 muscoli scheletrici, che differiscono nella forma e nelle dimensioni a seconda della funzione svolta. Ce ne sono altri comprendenti i muscoli lisci e i tessuti muscolari specializzati che formano il cuore. Essi sono costituiti da una porzione contrattile (ventre) continuanti con parti fibrose (tendini) che provvedono all'inserzione sui punti di trazione, possono avere forme molto varie. I muscoli sono delle strutture ha forma di fuso e si distinguono in: muscoli scheletrici, pellicciai, erettori del pelo, viscerali, oculari; per quanto riguarda, invece, la loro struttura, si distinguono in: muscoli striati, lisci, cardiaci. Il loro funzionamento comprende sempre una contrazione. Un muscolo non ha la facoltà di potersi allungare da solo, ma può soltanto rilassarsi, ed essere stirato passivamente. Lo stiramento è provocato dall'azione di altri muscoli detti antagonisti, chiamati in tal modo, per il loro agire in senso opposto. Le porzioni fibrose possono essere nettamente delimitate da quelle carnose, oppure penetrare nel ventre con setti in cui si inseriscono le fibre muscolari. Il colore dei muscoli dei mammiferi è in genere rosso vivo, dovuto alla presenza di mioglobina (carni rosse), talvolta biancastro come pure negli anfibi, nei pesci e negli uccelli (carni bianche), Le dimensioni variano soprattutto in relazione alla mole dell'animale, ma anche di un singolo animale esistono differenze notevoli: ad esempio tra i muscoli degli arti e quelli degli organi di senso. La porzione contrattile del muscolo è costituito da fibre più o meno numerose in relazione alle dimensioni del muscolo, disposte parallelamente le une alla altre e riunite in piccoli fasci.

I muscoli scheletrici sono formati da tante fibre muscolari , che rappresentano la

base costruttiva del sistema muscolare . Ogni fibra muscolare è una singola cellula plurinucleare di forma cilindrica formata da centinaia di lunghi fascetti contrattili , detti miofibrille . Ogni miofibrilla è costituita da una sequenza di sarcomeri anch’essi strutture contrattili costituite da proteine muscolari come l’actina e la miosina. L’actina è posta sulle due facce dei cosiddetti dischi Z che delimitano un sarcomero conferendo alle sue estremità una colorazione chiara. Al centro del sarcomero è posta invece la miosina che fa apparire scura la parte centrale. I due tipi di filamenti sono intercalati in modo ordinato , così che ogni filamento di miosina si trova circondato da sei di actina . Al momento della contrazione i sarcomeri ricevono l’impulso dal cervello tramite i nervi motori che formano sulla superficie del muscolo le placche motrici. Queste trasmettono l’impulso elettrico, che si propaga attraverso delle introflessioni delle membrane delle cellule muscolari (Tubuli trasversali), fino ad arrivare nel reticolo endoplasmatico . Il reticolo endoplasmatico contiene al suo interno molti ioni CA++ , che in seguito allo stimolo si riversano nel citoplasma venendo così a contatto con la miosina e l’actina. In seguito a questo si innescano una serie di reazioni chimiche che comportano la trasformazione attraverso il rilascio di un fosfato , delle molecole di ATP (adenosin-trifosfato) in ADP (adenosin-difosfato) generando così una certa quantità di energia. È questa energia che causa il movimento delle numerose Teste presenti sulla miosina , teste che come degli "uncini" si attaccano all’actina scorrendovi sopra . Bisogna tenere presente che sono centinaia le teste di cui è composta la miosina , che ogni testa può compiere cinque colpi al secondo ,e infine che sono moltissimi i filamenti contenuti nel muscolo, per cui si ottiene una contrazione di notevole potenza. Attraverso lo scorrimento della miosina sulla actina , con il conseguente avvicinamento dei dischi z , la superficie del muscolo si

riduce del 20% ,il muscolo si è contratto .

 

 

I muscoli scheletrici determinano il movimento dei vari segmenti scheletrici del corpo, essi perciò rappresentano gli organi attivi della locomozione. La funzione della locomozione si effettua con la partecipazione di tre principali gruppi di organi: le ossa, i muscoli e le articolazioni.

Le ossa sono gli organi passivi del movimento, i muscoli gli organi attivi e le

articolazioni

, infine, rappresentano il dispositivo in corrispondenza del quale il movimento medesimo si esplica. L'osso è un tessuto costituito da cellule immerse in una abbondante sostanze intercellulare molto consistente in quanto calcificata. Tuttavia le cellule consumano ossigeno si nutrono e riescono a fare in modo che le scorie vengono allontanate e smaltite dall'organismo. L'osso, infatti, è ricco di capillari sanguigni e la sostanza calcificata è percorsa da minuscoli canali che si estendono da una cellula ossea all'altra e da esse alla superficie dell'osso. Particolari cellule dette osteoblasti, producono numerosi prolungamenti del loro citoplasma e vengono a trovarsi nella sostanza da esse elaborate. Questa sostanza è composta da fibre collagene. E' nella matrice ossea che si depositano i sali di calcio provenienti dal sangue. In seguito a questo processo, detto di calcificazione, le cellule vengono a essere disposte in spazi, chiamati lacune. A questo punto le cellule ritirano in gran parte i loro prolungamenti e si trasformano in vere cellule dell'osso o osteociti. L'osteoblasto rappresenta la cellula immatura in grado di produrre questa sostanza organica, che poi andrà soggetta a calcificazione. La sostanza fondamentale dell'osso è disposta in strati o lamelle e il meccanismo con cui l'osso si accresce consiste nell'aggiunta di nuovi strati di osso. Tra le varie lamelle si trovano le lacune contenenti le cellule dell'osso. Secondo poi la disposizione delle lamelle si parla di osso spugnoso e compatto: nell'osso spugnoso le lamelle sono organizzate in modo da formare delle strutture, le trabecole, intrecciate tra loro; nell'osso compatto esse si addossano le une alle altre. Le superfici di contatto fra due o più ossa vicine sono dette articolazioni: queste possono essere distinte in tre tipi, secondo la maggiore o minore mobilità che consentono. Le sinartrosi sono articolazioni fisse, cioè non permettono alcun movimento: sono di questo tipo le suture craniche, lungo le quali le ossa della volta cranica si incastrano perfettamente con l’interposizione di un sottile strato fibro-cartilagineo. Ne risulta così una struttura ossea saldissima che garantisce la protezione dell’encefalo: con l’età le suture possono saldarsi ossificando completamente. Sono invece articolazioni semimobili le anfiartrosi: in questo caso si può avere l’interposizione di uno strao di tessuto fibroso come avviene per le vertebre. Il disco intervertebrale si compone appunto di uno strato fibroso esterno, derivante dalla fusione dei legamenti, e di un nucleo polposo interno. Sono esempi di anfiartrosi le articolazioni fra coste e vertebre, fra coste e sterno e la sinfisi pubica del bacino; tutte permettono movimenti molto ridotti. La massima possibilità di movimento è consentita dalle diartrosi o articolazioni mobili: le superfici ossee adiacenti si presentano rivestite da cartilagine e separate da una cavità articolare nella quale è contenuto un liquido denso e limpido, detto liquido sinoviale, che favorisce lo scorrimento reciproco delle ossa. Talvolta nella cavità si può trovare una lamina cartilaginea che separa le ossa completamente o soltanto in parte (menisco): la sua funzione è di adattare le superfici articolari delle ossa quando non sono perfettamente complementari. Intorno all’articolazione c’è una capsula articolare, prolungamento del periostio, esternamente alla quale si evidenziano i legamenti: questi sono fasci di tessuto connettivo che si inseriscono sulle due ossa affacciate. Secondo la forma delle due estremità ossee si hanno:

 

- enartrosi o articolazioni sferiche, in cui un osso presenta un processo sferico che si incastra completamente in una cavità (articolazione del femore con l’anca, e dell’omero con la scapola); garantiscono massima possibilità di movimento in tutti i sensi;

 

- trocleoartrosi o articolazione a cerniera o a cardine: a forma di troclea, con una cresta che limita il movimento ad una sola direzione (gomito, ginocchio);

 

- condiloartrosi, con una protuberanza adattata ad una cavità: consente flessione in due direzioni ma non la rotazione (fra atlante e occipitale).

Si può paragonare l'azione combinata di questi tre elementi a quella di una leva, infatti, se teniamo presente che le parti di una leva sono: le due braccia, il fulcro su cui fa leva e la resistenza o forza che si oppone alla potenza, si possono paragonare i pezzi scheletrici alle braccia della leva, l'articolazione al fulcro e i muscoli alla potenza. Ad esempio nel movimento di flessione dell'avambraccio sul braccio, l'omero e l'ulna rappresentano le due braccia della leva, l'articolazione del gomito corrisponde al fulcro, i muscoli bicipite e brachiale costituiscono la potenza, mentre la resistenza è data dal peso dell'avambraccio e della mano. I muscoli, con la contrazione, tendono a spostare ambedue i capi ossei su cui si attaccano e ad avvicinarli l'un l'altro; generalmente però si verifica che solo un capo osseo viene messo in movimento, mentre l'altro, sotto l'azione di altri muscoli, è tenuto fisso nella sua primitiva posizione. Nella flessione dell'avambraccio sul braccio, l'ulna soltanto (braccio mobile) è messa in movimento dalla contrazione del bicipite e del brachiale l'omero invece rimane bloccato (braccio fisso) dall'azione dei muscoli della spalla. Certamente per un buon funzionamento dell’apparato locomotore è necessaria una buona alimentazione. L'organismo per sopravvivere, crescere e soddisfare le spese abituali per il proprio mantenimento e la propria attività necessita di essere rifornito continuamente delle sostanze nutritive contenute negli alimenti. I principi nutritivi si dividono in 'essenziali' e 'non essenziali'. I primi sono quelli che l'organismo non sintetizza, ossia non produce, e che quindi devono essere introdotti quotidianamente con gli alimenti; i secondi invece sono invece quelli che il nostro corpo è in grado di sintetizzare.

 

 

Classe di Nutrienti

Nutrienti Essenziali

Aminoacidi Leucina, Isoleucina, Lisina, Metionina, Fenilalanina, Valina, Triptofano, Treonina
Glucidi Glucosio
Lipidi Acido linoleico
Minerali Calcio, Fosforo, Sodio, Potassio, Cloro, Magnesio, Ferro, Rame, Zinco, Cobalto, Manfanese, Cromo, Molibdeno, Selenio, Iodio, Fluoro
Vitamine Liposolubili:Retinolo, Calciferolo, Naftochinone, Tocoferolo
Idrosolubili: Tiamina, Riboflavina,
Piridossina, Niacina, Biotina, Acido folico, Acido pantotenico, Acido ascorbico, Cobalamina

I principi nutritivi, introdotti con l'alimentazione, dopo essere stati decomposti, digeriti ed assorbiti possono essere utilizzati dall'organismo per lo svolgimento delle proprie funzioni oppure ulteriormente degradati per produrre energia.

 

 

Un principio nutritivo non essenziale è costituito dalla fibra. Col termine "fibra alimentare" si indicano i polisaccaridi non a base di amido componenti le pareti delle cellule, il parenchima o alcune secrezioni dei tessuti vegetali e la lignina che sono resistenti alla digestione da parte degli enzimi dell'intestino tenue dell'uomo. Le fibre vengono classificate in insolubili, ma in grado di adsorbire acqua e solubili e maggiormente fermentabili. Le fibre insolubili (cellulosa, parte delle emicellulose, lignina), presenti principalmente nella crusca di cereali, sono caratterizzate soprattutto dalla loro capacità di fissare acqua (la cellulosa purificata può assorbirne da 5 a 10 volte il suo peso, la crusca ne assorbe circa 25 volte). Questi aspetti rendono le fibre insolubili particolarmente indicate nella regolazione delle funzioni intestinali (prevenzione e trattamento della stipsi e della diverticolosi intestinale). Le fibre solubili hanno invece la proprietà di formare gel (ad esempio, il guar forma un gel circa 100 volte maggiore del loro peso iniziale) e di essere altamente fermentabili. La fibra alimentare può essere definita come quella frazione degli alimenti vegetale che non può essere digerita dagli enzimi digestivi presenti nel nostro organismo. Chimicamente è composta da due frazioni:

una parte insolubile o fibra idrofila: cellulosa, lignina, emicellulosa

una parte solubile o fibra gelificante: pectine, gomme, mucillagini.

La fibra alimentare è costituita in gran parte da polisaccaridi non cellulosici. Nella crusca dei cereali è presente soprattutto fibra idrofila, nei legumi e nella frutta si trova in percentuali abbastanza elevate anche la fibra gelificante. Nonostante il concetto di fibra sia di recente acquisizione, essa ha una notevole importanza nutrizionale poiché:

- previene l'iperalimentazione e quindi l'obesità con le patologie ad essa correlate;

- regola le funzioni intestinali;

- modula l'assorbimento dei nutrienti e i processi metabolici.

Il meccanismo d'azione della fibra è da ricollegarsi alla sua capacità di legare l'acqua e di formare una massa viscosa. Assorbendo l'acqua, a livello dello stomaco, si ha un aumento del bolo alimentare consentendo di raggiungere il senso di sazietà più rapidamente. La frazione gelificante rallenta lo svuotamento dello stomaco e quindi anche la digestione e l'assorbimento nell'intestino, dove si avranno feci più voluminose, meno consistenti, diminuendo la pressione sul colon ed accelerando il transito intestinale. La fibra, grazie alle sue proprietà chimico-fisiche, esplica un'azione disintossicante e anticancerogena, legando le sostanze tossiche impedendone quindi l'assorbimento. Esse perciò determinano: un rallentamento dello svuotamento gastrico e senso di sazietà un rallentato del transito intestinale, un aumento dell'eliminazione degli acidi biliari (effetto che viene favorito anche dalla lignina e dalla crusca). Queste fibre sono quindi utili nell'alimentazione di soggetti con disturbi metabolici che traggono vantaggio da un assorbimento dei nutrienti lento e/o ridotto (diabetici ecc.) e nelle diete per la riduzione del peso (inducono senso di sazietà). La quantità ottimale di fibra insolubile da assumere è nell'ordine di ai 30 gr/giorno.
Per raggiungere tale quantità è auspicabile aumentare il consumo di alimenti ricchi di fibre (cereali, legumi, verdure e frutta).
Un 'eccessiva quantità potrebbe invece determinare, anche per la presenza di fitati e di ossalati, una riduzione dell'assorbimento elementi minerali (ferro, calcio, zinco) di origine alimentare. L'assunzione contemporanea di proteine animali può contrastare tale effetto. Le
fibre insolubili sono la cellulosa, parte delle emicellulose e la lignina presenti principalmente nella crusca di cereali.
Le
fibre solubili sono i galattomannani, le pectine, le gomme e mucillagini che hanno invece la proprietà di formare gel (ad esempio, il guar ed il glucomannano formano un gel circa 100 volte maggiore del loro peso iniziale) e di essere altamente fermentabili. La cellulosa è uno dei tanti polimeri che si trovano in natura. Legno, carta e cotone contengono tutti cellulosa.

 

 

 

Nel settore tessile alle fibre naturali l’uomo ha aggiunto producendole sinteticamente quelle artificiali. Le fibre tessili si dividono in : naturali, come la lana, il cotone, il lino, la seta ecc. (definite anche "nobili"), oppure in fibre chimiche, sintetiche o artificiali, spesso in mischia con le prime in varie proporzioni. Le fibre tessili chimiche sono le fibre tessili create dall'uomo mediante processi industriali fisico-chimici, partendo da materie prime esistenti in natura. Si distinguono in fibre artificiali (dette anche cellulosiche) e sintetiche. Le fibre fatte dall'uomo sono progettabili in funzione delle esigenze del consumatore e sono in costante evoluzione per offrire sempre nuove prestazioni in termini di comfort, estetica, sicurezza e rispetto ambientale. . Le Fibre Chimiche Sintetiche sono derivati di sostanze organiche di sintesi che vengono polimerizzate ottenendo lunghe catene molecolari (macromolecole) filabili sottoforma di filo continuo o di fiocco (fibra discontinua). Coprono attualmente in europa circa il 55% dei consumi dell'industria tessile. L’Acrilica è una fibra costituita da macromolecole, prevalentemente di acrilonitrile, in genere usata sotto forma di fiocco, in puro o mista con lana o cotone; disponibile anche come microfibra. Possiede leggerezza, morbidezza, voluminosità, mano lanosa e calda, elevata coibenza termica. Facile manutenzione, irrestringibilità. Ottima resistenza alla luce solare e agli agenti atmosferici. Inattaccabile da muffe, microrganismi, tarme. La Modacrilica è una fibra ottenuta da macromolecole costituite per almeno il 50% da acrilonitrile, generalmente disponibile come fiocco. Ha un’ottima resistenza alla fiamma (caratteristica premiante per ambienti pubblici e privati, regolamentati da precise normative di "prevenzione al fuoco"), qualità molto vicine alla fibra acrilica, tenacità, stabilità dimensionale, resistenza alla luce e ai lavaggi. Si usa per tessuti per arredamento (tendaggi, rivestimento mobili) coperte e copriletti e imbottiture. Poliammidica è una fibra ottenuta da macromolecole contenenti il gruppo ammidico; la prima fibra sintetica, nota anche come nailon. Usata in filo continuo e fiocco. Ha un’elevata resistenza alla rottura, alla deformazione (ottimo recupero elastico), all'abrasione. Facile manutenzione (lavaggio, asciugatura, non stiro), ottima tingibilità, ingualcibilità. Si usa per i collants e calzetteria, impermeabili, ombrelli. Poliestere è una fibra ottenuta da macromolecole costituite da polietilentereftalato , disponibile sia come fiocco sia come filo liscio o voluminizzato; prodotto anche in versione flame retardant. Disponibile anche come microfibra. Ha elevata resistenza alla rottura, elasticità, ripresa. Buona resistenza all'abrasione. Ingualcibile si usa per abbigliamento serico femminile, lingeria e abbigliamento intimo e per foulards e cravatte.

Le Fibre Chimiche Artificiali si ottengono trattando la cellulosa naturale di piante diverse (la stessa che costituisce le fibre vegetali), opportunamente trasformata e sciolta con solventi, e successivamente filata sotto forma di fibra tessile in filo continuo oppure in fiocco (fibra discontinua). Coprono attualmente in Europa circa l'11% dei consumi dell'industria tessile. L’Acetato è un filo continuo derivato dalla cellulosa è morbido e delicato, ha buone doti di traspirabilità, igroscopicità, antistaticità e comfort. Il Cupro è una fibra ottenuta dai linters di cotone trattati secondo il processo cuprammonio, prodotta come filo continuo è morbido e delicato, che ha buone doti di traspirabilità, igroscopicità, antistaticità e comforserica. Lyocell è una fibra cellulosica ottenuta mediante processo di filatura in solvente organico nel pieno rispetto dell'ambiente, che ha buone doti di traspirabilità, igroscopicità, antistaticità e comfort. Il Modal è un fiocco di viscosa modificato, con migliori caratteristiche di impiego (per esempio: tenacità, modulo ad umido, stabilità dimensionale, resistenza agli alcali) ottenibili anche con la microfibra modal 1,0 dtex, che è un ottimo partner di mischia per cotone, lana e sintetici. La viscosa o rayon è una fibra cellulosica filata come filo continuo o fiocco, che ha un comfort tipico delle fibre vegetali, buona resistenza all'usura (allo stato asciutto), elevata capacità igroscopica. Si impiega per l’abbigliamento e perfino per gli pneumatici. Nel 1884 Hilaire de Chardonnet deposita il primo brevetto per la fabbricazione della "seta artificiale", antenata dell'attuale Rayon. La Viscosa è un filo derivato dalla cellulosa. Ha
caratteristiche meccaniche idonee per tutti gli impieghi finali.
Il Comfort è eccezionale per le ottime proprietà di traspirabilità, antistaticità.
Le caratteristiche estetiche sono eccellenti per proprietà di brillantezza serica, drappeggio. Possiede biodegradabilità e duttilità per ogni tipo di processo tessile dalla produzione di subbi per tessitura su ogni tipo di telaio alla torcitura fino a torsione crespo. Possiede un’eccellente mischiabilità con altre fibre (lana, seta, lino, cotone, acetato, poliammide). Possiede facilità di tintura e di stampa con risultati di solidità tintoriale al massimo livello
. Si usa per l’abbigliamento per il comfort cioè traspirabilità, antistaticità, anallergicità. A livello d’estetica possiede lucentezza, drappeggio, morbidezza, ampia gamma di colori. Si usa per la camiceria, gli abiti, le vestaglie. Anche nell’arradamento viene usata per la
buona resistenza all' abrasione per copriletti, coperte, trapunte,
cuscini, paralumi, pannelli, rivestimento mobili, tappezzerie, velluti, arazzi, nastri e passamanerie, cordoncini, fettucce, fili da ricamo.