L'invenzione della fotografia

 

In una conversazione con il suo conterraneo Osvaldo Ferrari, discutendo intorno a Melville e La balena bianca, lo scrittore argentino Jorge Luis Borges dice: "Poiché mi piace molto l'etimologia, vorrei ricordare - non è un fatto troppo noto che la parola inglese "bIack" nero, e quella spagnola "blanco", come le sue consorelle francese, portoghese e italiana, hanno la stessa radice. Credo, per quanto riguarda l'inglese, che la parola sassone abbia dato origine a due parole: "bleak", che significa scolorito (si dice "in bleak mood" di una persona che sia svogliata, malinconica) e "bIack", nero. Ma tanto "black" quanto lo spagnolo "blanco" hanno la stessa radice, perché al principio "black" non significava nero ma senza colore. In inglese poi questo non aver colore si è indirizzato dalla parte dell'ombra, e abbiamo "black" coi significato di nero; mentre nelle lingue romanze lo ha fatto dalla parte della luce, della chiarità, e in spagnolo, in italiano, in francese, in portoghese si ha bianco nel significato di chiaro. E’ strano che questa parola si sia ramificata e abbia preso due significati opposti, giacché siamo soliti vedere il bianco come l'opposto del nero. Ma la parola dalla quale nascono entrambe significa: senza colore. Poi, come ho detto, ha preso due diverse direzioni".

E’ in questa accezione di "senza colore" che il bianco e il nero sono stati considerati simboli del lutto. Sicché a seconda dei luoghi, di fronte a un evento luttuoso, nelle "società tradizionali" si usa ancora vestirsi di nero o di bianco. Queste due tinte sono considerate in contrapposizione al simbolo vitalistico dei colori. Per la fotografia l'espressione "foto in bianco e nero", è entrata nella terminologia solo dopo l'invenzione della fotografia a colori, poiché inizialmente e fino all'avvento dell'autocromia - e cioè del primo procedimento a colori pratico e disponibile sul mercato, brevettato da Auguste e Louis Lumière si parlava di immagini monocromatichenel 1904 : di fotografie in cui le forme e i colori di un getto venivano rappresentati attraverso la scala di un unico colore, che poteva essere il grigio della dagherrotipia e della ferrotipia, il verde del positivo diretto su carta di Bayard, il giallo delle carte al sale, il blu della cianotipia, ecc, che nascevano dagli elementri chimici usati per lo sviluppo.

L’espressione "fotografia in bianco e nero" fu pertanto inizialmente intesa come sinonimo di "fotografia a un solo colore" anche se soprattutto il pubblico dei consumatori la vide in contrapposizione alla fotografia a colori e dunque nell'accezione etimologica ricordata da Borges.

Nondimeno fu solo con l'affermazione e il miglioramento delle moderne carte alla gelatina bromuro d'argento (messe in commercio intorno al 1880) che cominciò a perfezionarsi quella scala di grigi cui siamo oggi abituati, che va dal nero profondo al bianco netto. Quel tipo di stampa che ha avuto in Ansel Adams il suo più grande maestro.

I grandi fotografi, diversamente dal vasto pubblico, hanno comunque sempre considerato questa gradualità di colore su cui si fonda la fotografia monocromatica come una sorta di territorio sterminato. Hano. cioè sempre visto la scala monocromatica come un'intera tavolozza. Così, usando la fotografia in bianco e nero, essi hanno vagato dentro tutta l'estensione del grigio: e in questo vagare si sono affascinati e hanno affascinato.

Non dunque "assenza di colore",, come nel brano di Borges, ma ricerca dell'essenzialità della forma attraverso l'estensione di un unico colore. Questo è sempre stato e continua ad essere il senso della "fotografia in bianco e nero".

Quello che è cambiato è semmai il fatto che un vasto pubblico ha cominciato a riconoscere questa potenzialità da sempre nota ai fotografi: e ciò ha allargato il mercato giornalistico dei b/n e ha permesso ai fotografi di lavorare più liberamente.

In questo modo negli ultimi anni le fotografie in bianco e nero hanno trovato sempre maggiore spazio anche nelle riviste illustrate che sembravano nate per ospitare soltanto immagini a colori. Lentamente esse sono divenute sinonimo di raffinatezza. Tanto che la pubblicità -che per sua natura cerca di toccare le corde più sensibili del pubblico - ne ha fatto di recente un considerevole utilizzo.

Molti ormai associano le immagini in bianco e nero alla figura del fotografo professionista e le considerano una sorta di opposto delle proprie fotocolor delle vacanze, sicché da "materiale povero" esse sono divenute "materiale d'élite".

Questa rivalutazione del bianco e nero corrisponde, dunque, per il vasto pubblico, a una legittimazione della fotografia non più fondata sul vecchio luogo comune per cui una fotografia veniva considerata "artistica" se somigliava a una pittura.

L'assenza di colore, infatti, semmai rievoca una certa somiglianza della fotografia con le tecniche incisorie, che sono le più dirette cugine dell'arte fotografica e che continuano ad avere un certo pubblico di raffinati cultori, da cui provengono alcuni degli attuali collezionisti di fotografie.

Allo stesso modo, del resto, Joseph Nicéphore Niépce (1765-1833) - cresciuto in un'agiata famiglia di Chalon-sur-Saône - partì dalla litografia per diventare il primo fotografo

Niépce pensava addirittura alla fotografia a colori. Ma, a dispetto della sua fiducia, tutto era destinato a procedere con molta Ientezza. Infatti, i primi tentativi, realizzati con tre differenti camere oscure di fabbricazione locale, lo condussero a riprendere delle vedute - sempre dal medesimo punto: il primo piano della Maison du Gras , senza però riuscire a trovare un fissaggio migliore di quello, solo parziale, fatto con l'acido gallico, per cui le immagini dopo una certa esposizione alla luce diurna scomparivano. Allo stesso modo, non riuscì a trovare un metodo che gli Consentisse di ottenere da quelle immagini negative delle copie in cui le luci e le ombre corrispondessero alla realtà. Per questa ragione, dopo diverse prove, cambiò cammino: invece di cercare delle sostanze che annerissero, si mise alla ricerca di una sostanza che scolorisse all'azione della luce. E la trovò nel bitume di Giudea usato dagli incisori, il quale esposto alla luce s'indurisce.

Il procedimento era molto semplice. Niépce scioglieva il bitume nell'olío di lavanda e lo stendeva su una lastra metallica, poi sovrapponeva a questo strato un'incisione resa trasparente con un bagno oleoso. Una volta esposto alla luce per circa tre ore, il bitume diventava duro nelle parti attraversate dai raggi - e cioè in quelle corrispondenti alle zone bianche -, rimanendo invece molle sotto le zone scure dell'incisione, dalle quali veniva rimosso con olio di lavanda e trementina. A questo punto la lastra Poteva essere inchiostrata e stampata con un torchio tipografico.

In questo modo, Niépce, abbandonò la via dei negativo e si volse completamente alla tecnica del positivo diretto, la stessa che seguirà il suo futuro socio Louis-Jacques Mandé Daguerre.