Massimiliano Badiali

Fondatore del Labirintismo

INTRO- Foto di Rita Carioti

 

PROSA MANIFESTO DEL LABIRINTISMO

  Teatro della Bicchieraia il 25 Marzo 2007 ore 16

        Scritto da Massimiliano Badiali

 
 
Regia di Massimiliano Caldaro
        Interpreti: Valentina Badiali, Chiara Della Marta, Leopoldo Papini, Matteo Svolacchia e Massimiliano Caldaro.
 
Sulla sinistra lo scrittore prof. Massimiliano Badiali
 
 
 
 

Da sinistra Chiara Della Marta, Matteo Svolacchia, al centro il Massimiliano Caldaro, a destra Valentina Badiali e Leopoldo Papini

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Foto di Rita Carioti

 

NEL LABIRINTO DI BASENDOLF

 

Per armonizzare gli istinti inammissibili di contraddizione, ci siamo rifugiati nella caverna del racconto, dove il lettore cercherà invano di trovare una logica, che apparirà soltanto nel finale di una storia che non vuole né insegnare né divertire, ma indicare un percorso possibile di redenzione dall’esistere. Se esistere significa soggiacere alla noia e al dolore, raccontare è un alibi per sognare le porte d’avorio che ci separano dal mondo invisibile.

Cerchiamo alla luce del giorno con la lampada l’uomo come Diogene in antica Grecia, poiché non siamo cambiati di un millimetro nei secoli; non cercate in voi stesso un barlume di speranza in un oceano di disperazione? Se lo negate siete ipocrita.

Sulla cima dell’Olimpo poniamo la parola che riesca a combattere e sanare la decadenza che ha reso efebi i nostri animi. Con la parola del racconto aneliamo ad un percorso di possibile uscita dal labirinto di noi stesso. Siete chiuso in un dedalo da cui fuoriesce soltanto un’incerta e fluttuante dignità di consapevolezza che si mescola ad un disorganico e altalenante fraterno umanesimo? Siete connesso nel nostro secolo. Il palcoscenico è allestito e siete voi il protagonista di questa scrittura.

Siete sul pendio del racconto, da cui il “Noi” del narratore tiene le fila di un gioco tra il “Voi” del lettore e l’ “Io o Sles” dello scrittore: i piani si confondono per distinguersi in gradi di monotonie all’unisono di un’unica coscienza che cerca di riempire il vuoto e di risolversi in uno smalto consolatorio di consapevolezza.

Tanto per iniziare ci serve un luogo, abbiamo bisogno di personaggi: abbiamo soltanto   un narratore e uno scrittore. Che ne direste forse, se capita, di avere anche un solo lettore? Nulla di tutto ciò? Non siamo nell’era del racconto verista. Siete nel magma cerebrale.  Ecco ci siamo. Il racconto inizia. Siete nel momento di prova nel colloquio di un noi col buio o un soliloquio disegnato nel buio, dove confuse idee diventano parole e dentro le parole ci siamo mossi mentre esse correvano via.

La memoria vi ha comunicato ricordi ed immagini disperse nel vuoto e il vostro sangue…e avete sentito di vederlo con occhi interiori.

Ecco di nuovo tra il buio il mondo dai contorni vaghi ed indefiniti…tra crepuscoli scuri una dimensione osservata da occhi interni.   Ed ecco che vi sentite monade, i cui sogni non sono che lanterne invisibili e nascoste.

Una luce rilassata e calda illumina disegni, quadri e pellicole ingiallite…avete scoperto la vostra storia tra il sipario immaginario nel buio. Si chiudevano porte ed altre s’aprivano fra mille luci e dal palcoscenico ecco delle maschere dallo stesso volto e dannate, stessi occhi e stesso sorriso….età diversa del medesimo autore della commedia.

Palcoscenico in penombra, scricchiola, dietro finestre socchiuse, tende leggere, mosse dalla brezza estiva…tra raggi di sole e giochi d’ombra…appaiono i due protagonisti Lui e Lei, inalberati da un doppio sorriso radioso nel fissare il pubblico.

Inizia il racconto e il narratore si riposa in cantina e si mette a pensare a ciò che avrebbe inventato nel seguito. Spazio ai protagonisti in cerca della loro storia. E voi lettore fate silenzio.

LEI.- A quindici anni, avevo inventato una specie di mosca cieca amorosa per baciare il ragazzo che mi piaceva. Eravamo quattro ragazze e lui in un granaio. Gli abbiamo bendato gli occhi e doveva indovinare chi l’avrebbe baciato volta per volta. Infatti, avevo assoldato le mie amiche e io, io sola, l’ho baciato a quattro riprese modificando la forma della bocca per depistarlo. E mi ha nominata solo proprio alla fine, come a malincuore, quando avevo contratto le labbra per assomigliare a quella che aveva la bocca così piccola da non riuscire a infilare in una boccata un bigné al cioccolato.

Più tardi ha sposato la signorina Bocca Smilza, ed è andato a letto con le altre due, e quando si è accorto che ero la più bella, la più gentile, la più questo, la più quello, era troppo tardi, che idiota. 

LUI.- E’ incredibile.

LEI.- Un ragazzo idiota? Si sa.

LUI.- No, raccontami ancora questa storia.

LEI.- Quale storia? Dei baci rubati? Non c’è bisogno di bendarsi gli occhi per essere ciechi. Se ci si vedesse veramente chiaro, non si bacerebbe mai nessuno. E a te come ho fatto a baciarti! L’acqua non è poi il tuo forte. Già. Un briciolo d’igiene personale! Una colonia o un flacone di profumo talvolta.

LUI- Aspetta. Vado a lavarmi.

Lui esce di scena e Lei si siede su una sedia a dondolo sulla destra del palcoscenico che sembra muoversi sotto la spinta di mani invisibili.

Un carillon si apre e si chiude…un mappamondo gira da solo …tasti d’avorio intonano laënder dolci e soavi…di là porte chiuse, un filo di luce all’interno, altre porte piccole:  dentro la luce mobile delle candele. Di fronte la realtà è sparita…e Lei sente un profumo d’incenso e bosco. Il bosco rievoca il suo passato. Lei è nel buio. La sua storia è di vecchie immagini. Ed esse non sono che le briciole luminose di ricordi che corrono davanti ad un cespuglio disordinato d’idee. Ed inizia a camminare su quel passato.  Sente una chitarra che suona. La musica s’attenua…è un lieve richiamo, materializzazione di un’immagine. Vede un ponte. Ricorda il gioco al fiume con altri ragazzi, tra il leggero scorrere dell’acqua nella trasparenza…affoga il presente e scende in quell’acqua, aggrappandosi alle pietre, al muschio ed alle radici delle vecchie querce. Gioca tra l’acqua del torrente, salta col cuore il cielo cavo, vicino alla collina…ha gocce pesanti sulla fronte, capelli bagnati. Piove. Corre verso una casa circondata di rosa. Ma scompare. Adesso ha tra le mani ricordi di campanule di latte e neve bagnata di sole, pupazzi soffici e balocchi…ma sente ancora un odore di sangue incolore. Sei fermo, ghiacciato, col sangue immobile nelle vene, lettore? Aspetti che Lui ritorni dalla toilette profumato? Ti batte il cuore, forte, pulsante, nel petto, nella testa. Ovunque ti premono i  colpi della curiosità? Ecco riappare.

LEI- Hai ancora bevuto fino a farti scoppiare il corpo.

LUI- Una stronza abominevole, ecco cosa sei tu, che, nella tua testaccia vuoi trincerarmi da tutto il mondo.

LEI- Tu hai il cuore malato. Sei imprigionato nel malessere di vivere. Ti ci vorrebbe un lavoro che t’impegnasse, un’attività che ti catturasse completamente. Hai una bruciatura, una striscia scura nell'anima, qualcuno è passato, ha acceso un fuoco e se ne è andato. Provi dolore?

LUI-  Macchè! Che mancanza d’amore.

LEI- Anch’io ricordo il nostro amore. Quella notte odorava di edera e inebriava ogni gravido momento di vuoto della mia anima. Le sensazioni salivano su un’effervescenza che saliva l’epidermide, coma la carezza di una foglia. Le stelle respiravano il cielo blu. Ma non le vidi. Le immagino, adesso. La luna a tratti giocava coi veli scuri delle nuvole. L’erba profumava di verde..ed io profumavo d’erba nel disperato viaggio delle mie tenebre. Rumore di noia che s’infrangeva….il tuo volto morbido da cerbiatto innanzi a me…rumore di ghiaccio che s’infrangeva. Il tuo abito nero d’amante nel buio. “Sembra tutto bello- pensai- c’è nebbia, più lontano, più silenzioso, …è un’illusione. Non può essere che un’imperfezione ottica. Il mio dubbio è imperfetto….e di quest’illusione che dire ? Di quest’umidità di cuore che consola come spuma di mare. Inchiostro azzurro dei miei sogni- bagliore incerto pronto a svanire. No ?” Eros mi aveva colto: mi avevi presa. Che occhi neri,  che bocca dolce, m’immaginavo noi…due cuori innamorati che battono all’unisono. Sognavo di accarezzare le tue mani, facendo divampare sulle palme il fuoco della mia passione. Sognavo l’attimo del palpito unito alla nostra prima alcova. Come una pentola a pressione il troppo fuoco fece saltare, invano, il mio coperchio. Sotto il tuo maglione di lana grigia l’immaginazione cercava con gli occhi, mentre dalla bocca socchiusa fuoriusciva un tepore vivo…incandescente nel mio interiore frizzante silenzio.  Sudavo freddo. Sentivo le gocce gelide percorrere le membra…umida d’amore…amore sconosciuto per me inesperta sirena di mare. Chiusi le labbra. Il vento cullava il mio fantasticare proibito. Fu un attimo : la coscienza fu desta, come l’ultima foglia rimasta nell’albero malato. Come potevo sopportare un istante breve ed eterno, fugace e repentino ? Sentivo il tuo ansimare, o mio capitano di ventura : il ghiaccio lo conoscevo, ma la fiamma ? Le vecchie mura, fisse e grigie, erano piene di scheggi e brandelli come me. Amore, inferno. Freddo, paradiso.  Gettarmi come briciola al relativo ?   I nostri sguardi erano ancora fissi, persi nel vuoto dei quei miei freddi sospiri. Una tensione marmorea tingeva il cielo che lento s’abbassava con la nebbia. Vedevo il mio passato: i sentieri di danze proibite, i baci elargiti nel puro masochismo e mi scoprivo creatura schiava di coltelli di vento dolce…amaro terrore d’amore. E quel bacio, quel tuo bacio, mi gettò in estasi. Lo splendore, la magia, e carezze d’infinito nel sangue, un desiderio convulso come un chicco di sale fra le lenzuola. I sospiri erano vicini e l’attrazione dei nostri corpi nudi tagliava il coltello dei venti amari. Vicini, ma intervallati. Vicini. Vicini da sfiorarci. L’aria accarezzava le chiome d’entrambi nei nostri coiti di margherita.  La luce era la prossima rampa del tuo monte…luce era il trifoglio lucente della tua anima… Luce eri amore mio nell’atmosfera onirica tra il buio di quel magazzino dismesso tra le vaghe ombre e le sagome disegnate sui vetri della mia coscienza. Dai vetri socchiusi era filtrato un suono d’arpa, lontano. Vicino, di canne soffiate, di flauti e violini. Iniziavo a sperare, quasi per incanto a sorridere.. Un’intima lacrima solcava la mia guancia…con le mani tremanti in un mistico ansimare accarezzavo le viola striature del tuo petalo. Riaprivo le dita e il mio cuore si era aperto e i nostri corpi sprofondavano nell’oblio.

LUI- Che bella storia da romanzo! Come ti amavo! Che mancanza d’amore!

LEI- Tu parli d’amore solo quando bevi. Perché non mi dici che mi ami ancora! Perchè non dici mai niente?

LUI.- Amo le tue natiche polpose e i tuoi seni abbondanti. Se questo non è amore?

LEI- Dimmi che mi ami. Perché non dici mai niente?

LUI- Che la Toscana è una regione strana.

LEI.- Che l’amore è un sentimento strano.

LUI.- Che il suo passato ha origine più di mille anni fa.

LEI.- Più di mille anni fa?

LUI- Sì, come il mio passato.

Lui esce dalla scena e Lei lo segue.

Una lama infuocata si conficca nel burro della vostra mente...odore di appassionati, bramosi corpi abbracciati, sapore di calde labbra morbide, sguardi dolcissimi, eloquenti testimoni di anime selvagge...mai più. Tutto questo. Lui rientra piangendo seguito da lei.

LUI- Mai più. Mai più tutto questo.

LEI- Mai più cosa?

LUI- Mai più mio zio quando mi ha stretto il collo.

LEI- Eri cattivo?

LUI- Voi siete in camera vostra e vostro zio entra, vi accarezza, chiude la porta e ve lo

 infila nella vostra bocca di bambino.

Lui esce piangendo.

LEI- Le medicine non piacciono mai ai bambini. Che ti avrà mai dato? O l’antibiotico o uno sciroppo amaro?

Lui discende al centro di un monte infuocato e sente vibrare i colpi del piccone di ferro che batte e martella, scardinando le rocce e rimbalzando nel sangue. E rientra con Lei che lo segue incuriosita.

LEI- Insomma perché ti è andata a traverso questa medicina?

LUI- Lo zio vi dice che è una cosa così bella, impossibile da raccontarsi ad altri.  Lasciate che i pargoli vengano a me- diceva lo zio- in quanto esperto della vera fede cattolica.

LEI- Quanti nipoti eravate ad andare a studiare dottrina da lui? Certo che i bambini sono molto poco religiosi!

LUI- Ci ha detto che dovevamo inghiottirlo, in gola…come una pillola di salute, perché così era ancora più bello.

LEI-  Bello cosa? Le medicine fanno bene alla salute!

LUI- Ho bisogno di sputare.

LEI- Non si sputa. Hanno sputato anche sul Nostro Signore Gesù. E’ un peccato.

LUI- E’ un peccato?

LEI- Sì e poi le spine. Che idea, gli uomini, d’inchiodare un uomo.

LUI- Come appuntare una farfalla. Senza dubbio per conservare intatto lo scatto del suo volo.

LEI- Blasfemo!

Lei esce dalla scena. Lui rimane irretito e con gli occhi chiusi vede il cielo di mezzogiorno. Sente una voce che parla di fiori e d’inverni passati, di scuole di legno e di angeli buoni. Sente vicino a castagni d’ombra una cascata. Una strada. Ed è in terra svenuto in crisi etilica.

NOI- E voi lettore che mi dite? Che ballate tra onde di pace o respirate lamiere di cielo grigio? Gli alberi muti prendono voce al subitaneo vento che entra dalla finestra, come un’ombra nel cuore. E sotto entrano aghi di pino smorti.

SLES- Ma dentro il palcoscenico dove, lettore?  Immaginate senza credere troppo al narratore: vende fumo per illudervi che il reale appartiene all’immaginazione. Scrivere significa dare l’illusione completa del vero. Quindi ci sono pini e finestre. Solo voi e la vostra credulità: il palcoscenico è al chiuso.

NOI- Lui intanto è nel suo delirio etilico sotto coperta.  Non sente l’erba che scivola sulle ginocchia del mondo verde rapace di sangue…e non ha addosso il profumo selvaggio dei campi svegliati dalla notte di luna, ma odore di whisky mescolato ad un dopobarba da supermercato al mentolo.

SLES- Che immaginazione spetta al lettore, dopo che il narratore è disceso funambolo dalla soffitta. Avete paura? Avete paura come Lei, come Lui e come tutti del reale.. Restate sul molo del racconto se siete felice. Se non siete felice rifugiate il vostro sferzato corpo tra le coperte di neve nel labirinto e in questo nostro teatro di luce vi accogliamo. Ma dove sono finiti i nostri eroi?

LEI- Trattieni la tua sporca bocca nel peccato. Nel mio ventre hai scavato una tomba.

LUI- Sei una bigotta con tutto il moralismo che hai nella tua vita interiore!

LEI- Chiudi la tua bocca degenere, maledetto ubriacone. Ecco che con la tua vita marcia hai pestato la mia moralità. Una zoccolata da Satana. E la porcheria che ti cresce sotto i pantaloni, non voglio più sentirla. Ero già obbligata ad assaggiarla quando ti amavo. Ma quanto puzzavi…sono una vera santa! Hai perso il senno per non renderti conto che il mondo è pieno di uomini, in alto, in basso, a sinistra e a destra, di tante vite oneste condotte in rettitudine ?

LUI- Le braccia mi cadevano, la sera, dopo che mi compiacevo nei miei giochi di rettitudine!

LEI- Retto non sei mai stato. Non ti ho mai visto né sentito pregare! Sei un animo freddo e rassegnato !

LUI.- Mi rassegno pian piano. Ho come unica consolazione di aver lottato fino all’estremo confine della disperazione, di esserci talvolta anche passato sopra, sul confine, salvato in extremis….

Lei lo interrompe bruscamente.

LEI- Dalla bottiglia. Al tuo amore m’abbandonavo. Al mio amore t’abbandonavi. Alla solitudine sono condannata mentre la tua vita è consumata come la tua testa!

LUI- Si mettono le radici nella solitudine come si contempla il mare, senza pensare più di attraversarlo.

LEI- Ci rimettiamo alle onde, a ciò che depositano sulla riva. Si cerca il famoso messaggio nella famosa bottiglia. Che ad ogni modo arriverà più tardi. Poi, a forza di non vedere niente, solo rami morti e bucce d’arancia, non si aspetta più niente. Cadiamo con in bocca sapore di resina e terra, aghi di pino sul mento e sentiamo la voce del mare in una conchiglia dentata d’avorio. Di quando in quando si agita ancora una piccola luce vacillante per un Ulisse di passaggio, ed è così facciamo naufragare la nostra vita.

Lei rimane in silenzio.

SLES- E voi spettatori della commedia, scendete verso il basso, sospeso sul ciglio del baratro: non sentite il vostro mondo entrare nel buio? Sogni e montagne non hanno lo stesso peso. Abitate forse un intervallo? Sì, l’intervallo afatico di Lei….

LEI- Non valeva la pena di creare questa storia, di mettere in gioco tutte le forze della creazione, o Dio, per un’infelicità così comune, insomma. Avresti fatto meglio a togliermi subito dalla testa questa strana idea che l’amore esiste, che può incarnarsi fuori di tuo Figlio.

LUI- E’ troppo casto per i miei gusti. Se vuole arruolarmi nella sua legione, io farò orecchie da mercante. Per quanto riguarda la castità, inutile insistere, dico no.

LEI- Blasfemo! Dimmi che mi ami. Perché non dici mai niente?

LUI- Che la Toscana è una regione strana.

LEI.- Che l’amore è un sentimento strano.

LUI.- Che il suo passato ha origine più di mille anni fa.

LEI.- Più di mille anni fa? Da più di mille anni il cielo è faceto, ma sa quello che fa. Procede per rebus, indovinelli, ma non è pazzo, il cielo.

LUI- Non è pazzo il cielo. Sei pazza te. Siamo pazzi noi. Voi siete pazzi ad ascoltare una storia che non vi riguarda!.

Rientra Lui mezzo nudo e con un odore nauseante e sogghigna e Lei molto pallida lo segue scalza. Il palcoscenico è vuoto ed è occupato un solo posto: sull’ultima fila in penombra si intravede una sagoma indefinita.

LUI- A che pro moraleggiare! Vattene- dice a Lei - la pièce termina. Andiamocene: la rinuncia è questione d’abitudine sociale.

Lui e Lei escono dalle uscite opposte.  

NOI-  Ma poi sicuramente si incontrano in camerino- Noi lo sappiamo poiché siamo il grande orologiaio della fiction. Noi teniamo le fila di tutta la narrazione: a noi è concesso inventare, mentire o eludere le vostre aspettative. Noi siamo il narratore di questo racconto. Siete pazzo, lettore, a leggere! Siete ancora seduto unico spettatore anche se Lui e Lei se sono andati per appartarsi nei loro giochi.

SLES- Io sono l’unico lettore che è anche il solo spettatore di questa storia. Come va a finire?

NOI- Lui e Lei se ne sono andati. Noi non sappiamo dove né come né perché? Ma che ne sappiamo noi di una storia inventata. Sta all’unico sopravvissuto di inventare un finale possibile, un’alternativa credibile per darvi un’illusione di racconto. Ecco siete spettatore inerme seduto sulla penombra di un teatro solo per pazzi, ormai perversamente compiaciuto dello spettacolo.

SLES- Non sto mai in attesa alle palizzate dei parcheggi davanti ai negozi e non ripeto assolutamente filosofia spicciola come quella disegnata sulla carta igienica. Non vedo niente di ciò che vivete voi spettatori, cervelli ordinati, esseri costretti o capaci di vivere come viene, codardi fino a fuggire davanti ad una rappresentazione teatrale. Non mi resta che chiudere gli occhi e immaginare: devo guardare nel buio e gli occhi della mente corrono indietro.

NOI- La memoria incontrollata non è niente. La memoria incontrollata è la via aperta alla malattia totale, l’avaria totale. Una memoria tale è una sfera costretta a rotolare verso il basso, visto che scende. Tutto ciò che è senza controllo porta semplicemente verso un epilogo di morte senza dolore. E’ per questo che bisogna evitare il sonno e il sogno. La memoria esatta è il tutto possibile, il check-up senza aggiunte di causa di tutto un paese cerebrale, la possibilità laterale di tutto quello che potrebbe essere altrimenti se non fosse accaduto come ha dovuto per forza prodursi. Non può esserci un’analisi sana. Tutto è inguaribile.

SLES- Inguaribile è il Noi di un narratore che sa tutto e tutto vuole ordinare. A me ora spetta il palco con una storia vera da narrare.

NOI- Ma i  personaggi di questo racconto sono reali ? Se si bucano con un ago fanno ahi?... Lui e Lei si sono messi a nudo fino al punto di soffocare nella stanza limitrofa i loro spasimi e stavano per soffocare nell’orgasmo, ma non sono veri personaggi, ma maschere che si applicano sul viso o simulacri attraverso i quali Noi, il narratore, coniugando occhio e parola, abbiamo immaginato e diretto questo soliloquio : una Lei incapace di abbandonare il liquido amniotico della memoria ed al tempo stesso incapace di goderne, un Lui in cui la solitudine umana è deposta nelle pagine quotidiane del vivere.  Pedine in mano ad un narratore intimista, triste, colto in un’essenza vuota e minimalista: ecco a voi un Lui alienato e una Lei falsamente sublime in cui l'eroico, il sensazionale, lo strabiliante si appannano nei toni della sconfitta, della grigia routine, dell'adattamento alle circostanze favorito da un'intima sfiducia in se stessi.  Spietato senza essere mai crudele con quei toni così semplici e dimessi, Noi abbiamo animato fin qui in realtà il linguaggio di questa grande tragedia.

SLES- Io ho una storia vera da raccontare. Tutti quelli che si sentono obbligati a inventare qualcosa per raccontare non soddisfano nient’altro che la propria miseria, neanche tanto segreta. Anche tutto quello che è nel romanzo dittatoriale è nella sua essenza di una assoluta villania…in effetti, non esiste un narratore di un’intelligenza organica, come non esiste un essere che è il narratore… esso è lo specchio deformato, malato dell’esistenza dello scrittore…ma io esisto, io scrittore e sono anche l’unico narratore e spettatore…per grazia di un regolamento esistenziale. Io dovevo dunque esistere, per forza…e era necessario cominciare a porre un limite ad un Noi narratore in cerca di spettatori. Vi è andata male: il cerchio s’è stretto intorno a me scrittore che da unico spettatore-lettore ho impedito ai nostri eroi di compiacere un narratore troppo curioso. E’ inutile che lo scrittore racconti ciò che già sa…a chi a se stesso che è unico lettore e spettatore di questa storia per pazzi? La verità del racconto è questa scrittura labirintica dove sulla scena appare l’immaginazione del momento.    

NOI- Lei ci soffocherà. Avremmo dovuto aumentare il rispetto…ma per chi?. Non avremmo forse dovuto scrivere con un tale disgusto, avremmo forse dovuto semplicemente vomitare sulla scena l’immaginazione di quel momento? Ecco cosa sarebbe stato il racconto da labirinto.

SLES- Il labirinto è in me, chiuso in un dedalo triangolare scrittore-lettore-spettatore. Il teorema di Pitagora è il mio preferito: niente da fare. Nessun quadrato. Il tuo posto è fuori dal racconto, affinché ti soddisfi da solo con l’immagine della tua apparenza esteriore. Niente di te qui è prolifico. La cosa più importante, è che la tua assenza di fantasia non disturberà più la lettura di questa scrittura intimista, immaginativa nel dedalo del racconto. Bisogna scegliere: vivere o immaginare. Chi vive crede nell’illusione del reale e non vede al di là del proprio naso, chi immagina coglie il nesso profondo dell’arcano dell’esistere. Chiudo gli occhi e vedo tra la nebbia una persona…è gracile, le ossa nude sotto la lana rada. E’ piegata sulla schiena, contrattata e curva. Non ha bisogno di palcoscenico povera! è rannicchiata in un’urna di vuoto, non è che lo spoglio arbusto. Un fiore ignudo in un immemore tramonto. Immagine lenta, dagli occhi ingialliti, che navigano intorno al marrone stanco, come gondole forate come melma davanti alla banchisa. Ha rughe e solchi simili ai rami di un albero triste, che ha perso la chioma sulla collina. Dalle braccia esili, rauchi prolungamenti di forze, con le mani gonfie e nodose anela la luce di un giorno nuovo. Lente e doloranti le ossa nascondono pugni chiusi, che non sanno più liberarsi della notte. Il buio avvolge l’eco di quei suoi passi fragili…le sue gambe deambulano fra la sabbia scura, le ginocchia si piegano al gelo del vento. E nel silenzio le mani non riescono ad immergersi in quell’acqua, che scende dal suo collo come il sangue tiepido di un agnello da poco immolato. Ella si raddrizza, il busto convesso ed abnorme si deforma fino alle nuvole come un ponte verso il cielo. Gli occhi sorridono al passato, al caldo sole d’inverno, mentre la bocca si schiude come foglia secca.

NOI- Tutto ciò che è fantastico deve ogni giorno essere disturbato di nuovo…ma intorno al racconto tutto ciò che vi è di personale è ancora più orribile della più ignobile delle immagini da fantasticare. Visioni…utopie…nient’altro che forme anticipate di alcolismo…o peggio ancora…di religione.

SLES- Guardare con gli occhi chiusi o immaginare significa cogliere il reale al di là della parvenza. Vedo altre sagome nel buio…passano i bipedi, i convinti coscienziosi, ben vestiti, ben pensanti della stessa sostanza di Noi, che non vedono e non sentono, figli e genitori di manichini strozzati. Perché di là, ecco le bestie, che hanno il cuore rotto, inzuppato di spazzatura. Le bestie restano al confine del mondo!  Nei volti scavati hanno carceri, prigioni, letti marci, fango e i loro occhi pavidi ed innocenti. Il bipede li guarda con ribrezzo, convulsamente stregato. Infine li disprezza e li compra ed ecco il definitivo resoconto della riproduzione!  E poi sento una benda leggera coprirvi gli occhi, odoro il buio calore del sole nell’erba fresca appena tagliata, battuta da pugni impotenti. Allora mi vedo in mezzo ai bipedi ed alle bestie, in mezzo a Noi e a Lui: e mi sento come Lei avido di spirito, assetato di vita…ed ebbro dedalo dell’odissea dell’assoluta notte. E mezzo bipede e mezza bestia, anelo, crocifisso di ali, l’assoluto, mendace specchio e deformante riflesso di vero! Di catene spesse è soggiogato il nostro spirito, o Lei, affamato di dannata e vana ricerca d’assoluto. Ho bussato di nuovo alla porta con la testa insanguinata contro il cielo cavo, scendendo dentro la miniera sporca di carbone e bagnata di cadaveri…diamanti e polvere bianca.

NOI- Ci perdoni, Padrone. Siamo un pazzo ateo, che non amiamo l’immaginazione, che aneliamo all’infinito macero e informe.  Quale teleologia nella pelle! Si, respiriamo ancora inferno e radici di fuoco nell’ultimo rauco grido, evanescente alla vocazione del silenzio.

SLES-  Sono un pazzo credente, che ama l’immaginazione, che anela all’infinito.  Quando medito sulla mia storia capisco che non posso dire di avere sofferto per essere pazzo, o mio Noi, quanto per la paura e la vergogna di esserlo, avvilendomi per un modo inetto di affrontare la vita. Niente di quello che esiste mi è alieno; che essere infine troppo pazzo per un mondo di sani e troppo sano per un mondo di pazzi è come cercare il sangue nella pietra: cioè la logica nella vita.

NOI-  Il più furbo, evidentemente, sarebbe stato un essere, un essere possibile realmente, una relazione amorosa terrestre, senza cielo né stampelle, un’umiliazione del cielo libero da ogni divinazione.

SLES- E i miei eroi e i vostri personaggi dove sono?

NOI- Ecco: sono là! Sono chiamati in scena dal loro inventore!

LEI- Inventore, questo sogno di teatro mi è parso interessante in quanto mi ha permesso la rivisitazione di certi ricordi che hanno avuto corso nel mio immaginario.

NOI- Lei è in cerca d’autore. Ritornare vuole con Lui nella pagina del suo breve racconto, Padrone.

LEI- La vita è ben altro di ciò che si scrive. inventore, non voglio essere imprigionata oltre nel labirinto della scrittura. Ci vorrebbe una pratica di magia per liberare il mio personaggio dallo specchio diegetico: la mia esistenza dipende dalla volontà dello scrittore. Sono solo un atomo che respira per volontà altrui o che peraltro espira.  

LUI- Secondo me, tutti noi personaggi di un racconto siamo arbitrari. Siamo fantasmi allo specchio che attendono il beneplacito di esistere dallo scrittore.

LEI- Io continuo a non capire perché privare un personaggio della sua libertà. Hanno imprigionato Jacques. Hanno imprigionato Tristam. E volete imprigionare anche noi.

SLES- Di che prigionia parli?

LUI- Di questa di dover rimanere chiusa nel racconto e nel camerino a fingere di ansimare e di copulare, anche quando ci sarebbe spazio per recitare. Non ho perso l’istinto di conservazione: vivere per noi personaggi narrativi implicherebbe recitare. Noi viviamo solo nella scena nel momento in cui siamo liberi dalla pagina.

SLES- Siete speculari al mondo in cui gli uomini recitano per vivere, poiché sono incapaci a vedersi riflessi allo specchio. Gli esseri umani vanno da una commedia all’altra nel reale.

LEI- Ma io non sono vivente?

SLES- Vivrai per sempre con me nella mia scrittura. Libera sei e sarai insieme al tuo Lui di uscire quando vorrai dalle pagine di questo racconto-lettura.

LEI- Poiché esisto, non era forse necessario che questo libro esistesse!

SLES- Ma tu esisti attraverso il mio racconto! Il viaggiatore giunto in cima alla collina si ferma e si siede e cerca di capire dove lo conduce il cammino sinuoso che ha intrapreso. Così lo scrittore fermo un attimo, riprende fiato e si chiede dove vada a finire il raccontare. Immagina una marionetta che vorrebbe lasciare la scena prima della fine della pièce. Alto là! Abbiamo bisogno di Lei ancora per il finale!

LEI- Di me che dubito di esistere! Di me che vivo per sempre dentro il margine stretto di un breve arco di carta.

SLES- Nella vita niente si risolve: tutto continua. Credi dunque di potertene andare quando vuoi con il tuo Lui? Il buon scrittore dovrebbe conoscere come il libro finirà. Ma la vita è come l’acqua di un ruscello e il racconto non è un microcosmo per borghesi ipocriti. Io lascio questo racconto all’avventura. La scrittura potrebbe essere continuata: a voi, miei eroi, la libertà di rappresentare il vostro autobiografismo esistenziale.  A Lei e a Lui consegno il racconto da ultimare: il palcoscenico è vostro.

LEI- Dimmi che mi ami. Perché non dici mai niente?

LUI- Che la Toscana è una regione strana.

LEI.- Che l’amore è un sentimento strano.

LUI.- Che il suo passato ha origine più di mille anni fa.

LEI.- Più di mille anni fa?

NOI- Nel buio immaginano un teatro abbandonato, una luce forte, uno schermo gigante e dentro allo schermo un pubblico eccitato e convulso, trasparente come l’essenza della celluloide, che attende invano il loro ritorno. E’ in delirio, spinge le porte dei palchi, raggiunge quasi il palcoscenico, è affamato di risate…paga affinché Lui e Lei si macerino per farli curiosare più che ridere. Dalla luce bianca scende un clown, morso da un serpente muto….è sceso lo scrittore dalla luce bianca al palcoscenico…

E Lei e Lui e Noi e Sles lo scrittore-lettore-spettatore ripetono in coro il finale di copione: ognuno fuori tempo, seguendo il filo associativo delle loro idee.

CORO- Un angelo è sceso dal cielo annunciando salute e verità. I pazzi l’hanno ascoltato e compreso, i sani l’hanno snobbato e deriso. Basendolf…..non esiste pazzo più pazzo di un sano….Osservando gli oleandri, sono  belli e velenosi. Sono l’immagine della colonia dei sani: estetica virulenta e essenza velenosa. Noi apparteniamo ai paria, ai fichi d’India, aspri e indegni figli di una terra ricca, siamo embrioni emarginati in una società multiglobale. Aculei e spine nascondono la nostra polpa esistenziale. Detestiamo il grigio della bava borghese confondersi con lo smog cittadino, preferiamo il cimitero nero del dolore, della rabbia e della disperazione al grigio della noia criminale di una monotona borghesia parvente classe sociale. Aneliamo all’assoluto, cercando nella vita l’amore  e rifiutando ogni compromesso esistenziale. Siamo scrittori, narratori, personaggi in cerca d’autore che qui siamo nel racconto atti a rifiutare il pecorismo sociale e siamo in scena per colmare l’aporismo esistenziale di questo anelante assoluto calvario dell’umanesimo spirituale.

Al narratore spetta il difficile compito del congedare i suoi personaggi in questo racconto iperreale.

NOI- Addio a Lei e a Lui e alla loro storia surreale, ad un lettore-spettatore ignaro di questo racconto virtuale, e ad un Noi narratore che vi ha illustrato la negazione di apoteosi di questo teatro social borghese e commerciale. Ridete dei nostri pupazzi di storie vere camuffate dall’ebbrezza di parole? O dello scrittore padrone maldestro di un coperchio di non-senso? Lui e Lei sono della stessa sostanza d’essenza di cellulosa, ma in fondo agli occhi, attraverso i loro occhi, vedete la vita che va e l’indeterminatezza del mondo…  

 

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