NORD E SUD
Prof. Massimiliano Badiali

L’elaborato esamina la differenza della maggiore difficoltà dello sviluppo economico, sociale, politico e legislativo del Sud Europa ( si pensi al brigantaggio in Italia) i cui segni oggi si rinvengono nell’arretratezza e quella del Nord che, invece, all’opposto in Europa ha sviluppato questi fattori in modo più celere: un esempio fra tutti è l’Inghilterra. Ponendo a confronto le due diverse tradizioni evidenzierò la diversa concezione fra le della legge, della società e dell’economia.

 

 

 

 

 

 

 

In Italia il processo di unificazione fu lungo e difficile. Dal 1821 al 1870 si compie quello che molti definirono "il miracolo" dell'Unità d'Italia. Il Risorgimento non é solo un fatto politico, ma soprattutto una grande affermazione di eterni valori di umanità. La Rivoluzione francese (1789) é l'avvenimento che rompe l'equilibrio della vecchia società europea: essa apre l'era moderna, nella quale il sistema sociale si modifica profondamente. Alle monarchie assolute, agli stati dispotici, ai sovrani poco illuminati, al potere esercitato esclusivamente dai gruppi aristocratici-nobiliari, subentra un sistema più flessibile, che rinnega il "diritto divino" del sovrano e afferma, per contro, che il potere é esercitato per delega del popolo. Esso é quindi un esercizio e non un diritto; viene affidato attraverso la scelta (elezioni) cui partecipa tutta la collettività. La Rivoluzione francese fu come il dilagare di un impetuoso uragano su una pianura colma di messi: le idee rivoluzionarie si diffusero ben presto in tutta Europa. In Francia dopo molteplici vicende (la rivoluzione, la soppressione della monarchia, il terrore, la convenzione, il direttorio) Napoleone Bonaparte riassunse in sé tutto il potere dello Stato. Sarebbe facile dire, che il dispotismo napoleonico era soltanto un nuovo assolutismo in luogo del vecchio potere regio: in realtà anche se l'impero napoleonico si costituiva sotto le apparenze di una concentrazione del potere di tipo autoritario, esso rappresentava un fatto nuovo, una specie di parentesi provvisoria destinata a rafforzare le conquiste della rivoluzione. In Italia, la Rivoluzione francese rappresentò ad un tempo l'affermazione dei principi di libertà individuale e personale, e il primo albeggiare della risorta coscienza nazionale. Nel 1796 a Reggio sventolava per la prima volta il tricolore, simbolo della Repubblica Cispadana, nata con l'aiuto dei rivoluzionari francesi. Ma quando, nel 1815, cadeva l'impero napoleonico l'Italia ritornava sotto gli antichi sovrani: l'Austria aggiungeva alla Lombardia il Veneto, a seguito del tramonto inglorioso della Repubblica di S. Marco; i Savoia tornarono in Piemonte Liguria e Sardegna; i Borboni nel Regno delle due Sicilie; i Lorena-Medici nel granducato di Toscana; il Papa nello Stato Pontificio; i duchi d'Austria-Este nel modenese; e l'Emilia-Romagna con le Marche veniva restituita allo Stato Pontificio. Ma questo assetto, che é quello del 1815 (pace di Vienna), rappresentava semplicemente un illusorio ritorno all'antico, dopo l'uragano napoleonico. In realtà i primi fermenti rivoluzionari avevano già preparato gli avvenimenti che si sarebbero successivamente sviluppati: la Restaurazione degli antichi Re e Principi era soltanto una provvisoria parentesi che preparava il Risorgimento e l'Unità. Il Risorgimento è la coscienza del fatto che non esisteva solo l'Italia "geografica" composta di entità regionali affini per lingua e costumanze, ma esisteva anche un'Italia "storica" destinata a creare una nuova unità politica, a divenire uno stato, unitario retto dalle stesse leggi, governato allo stesso modo, capace di reggere il confronto con gli altri stati nazionali europei. Doveva esistere, insomma, anche un'Italia con espressione politica, come sintesi di valori, di ideali, di civiltà, di espressione culturale e artistica, di aspirazioni a costituire un popolo libero e unito. Il Risorgimento, si può dire, inizia con la stessa restaurazione degli antichi princìpi e si esprime sia attraverso le società segrete dei patrioti (Carboneria, Giovane Italia), sia attraverso i moti rivoluzionari (moti di Nola 1820, moti del Piemonte 1821, moti dell'Emilia 1831, ecc.). sia attraverso l'opera dei pensatori, patrioti e poeti che nei loro scritti diffondono le idee di libertà, di unità, di indipendenza (Manzoni, Pellico, Balbo, Gioberti, Guerrazzi, Capponi, D'Azeglio, ecc.). Il Risorgimento diventa così un fenomeno che gradualmente educa sempre più profondamente l'animo degli italiani. E comincia ad essere temuto e combattuto. La persecuzione dei patrioti apre infatti una storia di sacrifici eroici. L'Austria, insediata nel Lombardo-Veneto, ma più di ogni altro lo Stato Pontificio, non danno tregua a questi spiriti precorritori dell'Italia Unita, li processa e li condanna spietatamente a morte o al carcere; dai processi del 1821 di Milano (Pellico, Confalonieri) alle orrende stragi di Belfiore del 1852-53, il Risorgimento italiano trova nei suoi patrioti una testimonianza degna degli eroi e dei martiri. Le figure che più rappresentano e incarnano gli ideali del Risorgimento italiano, sono molte: quelle popolari come Giuseppe Garibaldi o quelle più intellettuali come Giuseppe Mazzini: il primo sarà "l'uomo d'azione" capace di conquistare un regno in un impresa leggendaria con un pugno di uomini; il secondo é invece l'anima del Risorgimento, colui che diede un senso alla ribellione, alla rivolta, alla cospirazione, non soltanto alla luce di un meschino ideale nazionalistico di potenza, ma alla luce di valori esterni di umanità. Anche se entrambi -e molti altri- commetteranno errori. Il Risorgimento italiano, nasce e si svolge in questo spirito. Dopo le tragiche vicende del 1821, dopo i moti del 1831, con i protagonisti finiti nelle repressioni e nelle carcerazioni, l'alba della speranza risorge nel 1848: Milano si solleva (5 giornate); il re di Sardegna, Carlo Alberto arriva fino a Peschiera, sogna già di liberare dal dominio austriaco il Lombardo-Veneto; perfino Papa Pio IX in un primo tempo benedice l'impresa. Ma si preparano dure delusioni; i Borboni di Napoli restaurano l'antico potere, il Papa ritratta le parole piene di speranza, e Carlo Alberto ambiguo oltre che debole, viene clamorosamente sconfitto a Novara (1849) e prende la via dell'esilio dopo venti anni di discutibile (un vero enigma) comportamento. Sembra che tutto sia finito. Invece dieci anni dopo ha inizio la fortunata (secondo alcuni punti di vista) impresa che porta all'Unità. Sotto la guida di Cavour e di Vittorio Emanuele II, il Piemonte alleato dell'Imperatore dei Francesi Napoleone III, dichiara guerra all'Austria e dopo le battaglie di Palestro e di Magenta (1859) é aperta la via di Milano. La Lombardia viene ceduta con la pace di Villafranca (1859) tranne Mantova, alla Francia, la quale a sua volta consegna la regione al Piemonte. La pace firmata il 12 agosto da Vittorio Emanuele II, purtroppo sacrifica ancora il Veneto. Cavour (e con lui Garibaldi) che mirava a ben altre conquiste, si dimette per alcuni mesi dal governo ed é sostituito da Alfonso La Marmora. Ma intanto si solleva la Toscana, si sollevano i ducati di Modena e di Parma, si ribellano le legazioni di Romagna allo Stato Pontificio; vengono effettuati dei plebisciti che proclamano l'"annessione" di queste regioni al Piemonte. (una parola anche questa che si rivelerà poi equivoca - soprattutto quando significherà "sudditanza"). Ed é a questo punto che accade ciò che potrebbe sembrare leggendario se non fosse un fatto storico realmente accaduto. (anche se ci sono opinioni contrastanti su chi ostacolava (Cavour), chi appoggiava (oltre Mazzini, gli Inglesi!), o chi ambiguamente attendeva prima l'esito per poi intervenire (come a Peschiera). Con poco più di un migliaio di uomini Giuseppe Garibaldi salpa da Quarto il 5-6 maggio 1860 sbarca a Marsala, batte le truppe borboniche, conquista Palermo attraversa la Sicilia, passa lo stretto, conquista tutto il napoletano: il 29 ottobre 1860 egli consegna a Vittorio Emanuele II, conquistato senza spargimento di sangue, il Regno d'Italia. Di lì a poco i plebisciti (2 ottobre 1860) "annettono" le due Sicilie al Piemonte seguiti a breve distanza da analoghi plebisciti nelle Marche e nell'Umbria. Il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II assume il titolo di re d'Italia.

La classe dirigente del nuovo stato si trovò ad affrontare una serie di gravi problemi legati ai settori economico e finanziario. La situazione ereditata dal periodo precedente era abbastanza complessa: ai sette stati preunitari corrispondevano infatti ben nove amministrazioni finanziarie (la Sicilia e l’Emilia godevano infatti di una statuto autonomo), con differenti sistemi monetari e criteri di riscossione delle imposte. Ciascuno degli Stati italiani aveva avuto, anteriormente al 1859, una propria politica fiscale e diverse erano le condizioni delle finanze ereditate dal Regno d'Italia. Se ad esempio consideriamo i due regni più importanti, quello di Napoli era finanziariamente solido, con un debito pubblico scarso e imposte non gravose e ben armonizzate, e un servizio di tesoreria semplice ed efficiente; al contrario, nel regno di Sardegna le imposte avevano raggiunto livelli molto elevati, il regime fiscale presentava delle sovrapposizioni, fatte spesso senza criterio, e il debito pubblico era assai forte.

 

milioni di lire Attivo passivo
Piemonte --- 91
Toscana --- 14
Sicilia --- 3
Lombardia 28,3 ---
Parma, Modena e Romagne 26,4 ---
Napoli 9 ---
Totale --- 39

 

 

Gli anni 1859-1860 richiesero spese straordinarie sia per sostenere la guerra sia per liquidare le antiche amministrazioni, spese che furono coperte ricorrendo ai prrestiti invece che ad un aumento delle imposte.

- spese per la guerra del 1859 = 263 milioni
- indennità all'Austria = 180 milioni
- indennità alla Francia = 80 milioni

 

Allo scopo di reperire i finanziamenti furono emessi vari prestiti, tanto dal Piemonte che dai Governi Provvisori:

- 21 febbraio 1859: 50 milioni
- 11 e 28 ottobre 1859: 100 milioni
- 12 luglio 1860: 150 milioni
- gorerno provvisorio delle Romagne: 28 milioni
- governo provvisorio della Toscana: 53 milioni
- governo prov. di Napoli e Sicilia: 39 milioni
- totale 1859-1861: 405 milioni

Solo nel 1861 fu possibile fare un bilancio ordinato e certo delle finanze del Regno d'Italia:

 

in milioni 1859 1860 1861
entrate 475 513 483
spese 660 927 951
disavanzo 185 414 468

 

Tra le voci "negative" del bilancio spiccano: pensioni agli impiegati dei passati regimi: 20 milioni; esercito e lavori pubblici: 150 milioni; interessi del debito pubblico: 70 milioni. Il ministro delle finanze Bastogi, dovette fare i conti con un debito pubblico già piuttosto alto: 111.500.000 lire, di cui il 57% di origine sabauda. Per tentare di contenere il deficit, aggravato dall’abolizione di una gran parte dei dazi doganali che vigevano tra gli stati preunitari, vennero estese a tutto il regno tasse e gabelle proprie del Regno di Sardegna. Il conte Bastogi, primo ministro delle finanze del regno d'Italia, ottenne dal Parlamento l'approvazione (legge 4/8, n. 174) del debito pubblico unificato: 2374 milioni così ripartiti tra le regioni:

 

Stati sardi: 1292 milioni Lombardia: 152 milioni
Parma: 12 milioni Modena: 18 milioni
Romagna: 19 milioni Marche: 5 milioni
Umbria: 7 milioni Toscana: 139 milioni
Napoli: 522 milioni Sicilia: 209 milioni

 

 

Il riordinamento delle finanze cominciò solamente nel 1862: con la legge fondamentale tutte le forme preesistenti di tassazione sugli affari erano sostituite da un solo sistema, unico per tutto il regno. Le nuove leggi fondarono tutto il sistema su: tassa di registro, tassa di bollo, tasse ipotecarie e tassa di manomorta; tasse sulle società industriali e di assicurazione; tassa sull'emissione di biglietti o buoni in circolazione. Poco dopo veniva fissato il prezzo di vendita del sale in lire 30 per quello comune, in lire 40 per il raffinato e in lire 8,15 quello per le vendite di favore; inoltre era imposto il bollo sulle carte da gioco. Quintino Sella, succeduto al Bastogi, per ridurre il debito propose di cedere all'industria privata la costruzione della ferrovia (annunciava che era già stato concluso un accordo per le ferrovie napoletane e che altri contatti erano in corso); di alienare i canali posseduti dal demanio, affidando alla società acquisitrice l'incarico di costruire un altro canale, già progettato e approvato, che partendo dal Po e arrivando al Ticino era destinato a irrigare una vasta area di terreno; di trasferire a ldemanio i beni della cassa ecclesiastica e alienarli assieme ai beni demaniali non destinati a uso pubblico.

Il terzo ministro delle finanze, Minghetti, ideò un piano che avrebbe dovuto portare al pareggio in quattro anni : economie nella spesa pari a 200 milioni
maggiore imposte per 115 milioni, 60 milioni quale incremento naturale delle imposte esistenti, contenimento delle spese straordinarie per 100 milioni annui, un prestito di 700 milioni, buoni del tesoro per 150 milioni, vendita di beni della cassa ecclesiastica per 218 milioni. Dal 1861 al 1870 lo stato alienò rendite pari 2692 milioni lasciando un debito perpetuo o redimibile del valore nominale di 3950 milioni. Prima del del 1866 erano stati emessi dei debiti per un valore nominale di 2732 milioni che avevano permesso un incasso lordo di 1919; deducendo da questo i diritti di commissione, interessi e spese diverse di emissioni pari a 51 milioni, il prodotto netto scende a 1869 milioni (con un saggio corrispondente del 70,20% e 68,50%). Contemporaneamente venivano emessi buoni del tesoro per un valore di 3659 milioni a un saggio medio annuo del 5,45% così collocati:

- 1692 milioni nelle antiche province del Regno di Sardegna
- 1040 milioni in Toscana
- 486 milioni in Lombardia
- 278 milioni nel napoletano
- il restante diviso nel resto del regno.

 

 

I pagamenti di interessi del debito pubblico ebbero nel decennio l'andamento riassunto in tabella:

in milioni interno Estero Tesoro (1) totale DebitoPubblico
1861 93 32 2 127 143
1862 101 52 3 156 159
1863 120 66 4 190 197
1864 124 84 6 214 224
1865 143 85 17 245 274
1866 202 98 29 329 292
1867 190 112 29 331 359
1868 290 115 28 438 362
1869 225 112 57 394 404
1870 260 93 54 407 412
Totale 1748 848 230 2826 2826

 


Nel decennio fu iscritta nel libro del debito pubblico rendita per 263,2 milioni, pari a un valore capitale di 5265,5 milioni, ripartito come riportato nella tabella che segue:

 

  Entrate Totale
entrate
% ordin.
su totale
totale
spese
ordin. meno
spese
% delle
spese
  ordin. Straord.
1861-63 480 372 852 56,3 879 419 47,6
1864-66 604 544 1148 52,5 1116 472 42,3
1867-70 803 210 1013 79,3 1126 323 28,7

 

Raddoppiò il provento del dazio di consumo, passato da 23 milioni a 53 (1867-1870) e crebbe anche il gettito dei monopoli.

periodo intangibili civili Militari Totale % intang. % civili % militari
1861-63 239 323 317 879 27,2 36,7 36,1
1864-66 450 306 360 1116 40,3 27,5 32,2
1867-70 612 286 228 1126 54,3 25,5 20,2

 

 

Nel 1866, allo scoppio della III guerra d’indipendenza, i problemi finanziari parvero addirittura insormontabili. L'aumento della parte intangibile sul totale delle spese è collegato all'aumento del debito pubblico e, in piccola parte, all'onere crescente delle pensioni, passate da 33 milioni nel 1861 a 46 nel 1866 e a 55 nel 1870. Importanza minore, sia in assoluto che in ragione percentuale, ebbero le spese militari cresciute nel 1866 in coincidenza con la guerra contro l'Austria. Le entrate effettive coprivano appena i tre quarti delle uscite (in forte e continuo aumento) e al grave disavanzo si provvedeva quasi esclusivamente oramai con l’emissione di prestiti, due quinti dei quali allocati all’estero, proprio nel momento in cui una crisi gravissima veniva a sconvolgere i mercati borsistici europei. Il distacco tra Nord e Sud si era già manifestato in forma gravissima sin dai primi giorni dell'Unità, con un fenomeno che investì l'intero Meridione tra il 1861 ed il 1865: il brigantaggio. Le cause erano antiche e profonde, ma la delusione creata dal passaggio garibaldino prima e dall'accentramento amministrativo poi erano i motivi più recenti di questo fenomeno. La situazione si aggravò subito dopo la vendita all'asta dei beni demaniali ed ecclesiastici. I compratori appartenevano prevalentemente alla nuova borghesia rurale che si stava rivelando ancora più avara e tirannica dei vecchi padroni. L'aggravarsi delle condizioni dei contadini causò la ripresa dei disordini che in pochi mesi assunsero le proporzioni di una vera e propria guerriglia. In Calabria, Puglia, Campania, Basilicata, bande armate di briganti iniziarono nell'estate del 1861 a rapinare, uccidere, sequestrare, incendiare le proprietà dei nuovi ricchi. Si rifugiavano sulle montagne ed erano protetti e nascosti dai contadini poveri; ma ricevettero aiuto anche dal clero e dagli antichi proprietari di terre che tentavano, per mezzo del brigantaggio, di sollevare le campagne e far tornare i Borboni. Ma chi erano i briganti e per che cosa combattevano? Il grosso delle bande era costituito da braccianti, cioè contadini salariati esasperati dalla miseria; accanto ad essi lottarono anche ex garibaldini sbandati, ex soldati borbonici e numerose donne, audaci come gli uomini. All'inizio essi combatterono per due scopi l'uno in contrasto con l'altro: ottenere la riforma agraria che Garibaldi non aveva concesso deludendo le loro speranze; impedire la realizzazione dell'Unità d'Italia per far tornare i Borboni, cioè proprio quei re che avevano sempre protetto i latifondi delle nobiltà e della Chiesa, negando ogni riforma. A creare questa confusione agivano numerosi fattori, tutti comprensibili: l'odio per i nuovi proprietari, l'incomprensione per le leggi del nuovo Stato. I briganti, quindi, non furono "criminali comuni", come pensò la maggioranza degli italiani, ma un esercito di ribelli che, all'infuori della violenza privata, non conoscevano altra forma di lotta. Tenuti per secoli nell'ignoranza e nella miseria, i contadini meridionali non avevano ancora maturato una conoscenza politica dei loro diritti e non riuscivano ad immaginare alcuna prospettiva di cambiamento attraverso i mezzi legali. Questa sfiducia in ogni forma di protesta e di lotta organizzata fu il nucleo della vera "Questione meridionale". L'esteso fenomeno del brigantaggio ne fu solo una drammatica conseguenza. Lo Stato italiano rispose con una vera e propria guerra a questa rivolta sociale che, nelle sue manifestazioni ampie, durò oltre quattro anni: alle truppe già stanziate nel Sud al comando del generale Cialdini, il governo ne aggiunse altre, cosicché, nel 1863 ben 120.000 soldati erano impegnati nella lotta al brigantaggio: quasi la metà dell'esercito italiano. Nello stesso anno venne dichiarata la legge marziale: processi sommari fucilazioni, incendi e saccheggi furono gli strumenti impiegati da Cialdini nell'opera di repressione, non solo contro i briganti, ma contro tutti i loro fiancheggiatori. Migliaia di morti in scontri armati e altrettante pene capitali o alla prigione a vita furono il tragico bilancio finale. Nel 1865 il brigantaggio era stato praticamente sconfitto. Lo stato aveva vinto la sua guerra, ma compiendo proprio gli errori che Cavour aveva cercato di scongiurare. Dopo la repressione e la legge marziale, la frattura tra il Sud ed il resto dell'Italia non fece che approfondirsi. Le classi povere, soprattutto contadine, immaginarono spesso i briganti come degli eroi popolari e anche nella stampa dell'epoca furono proposte figure di briganti "buoni". I briganti, ovviamente, godevano dell'incondizionata simpatia delle masse rurali che li identificavano alla stregua di veri e propri eroi, una specie di ottocenteschi Robin Hood paladini di una Dea Giustizia che brandiva la spada contro i soprusi dei ricchi e il pericolo costituito dalle autoritarie imposizioni del nuovo padrone, il Regno d'Italia. Nel 1870 Roma occupata dal generale Cadorna, veniva proclamata capitale del Regno d'Italia. Era l'Unità raggiunta dopo cinquant'anni di lotte e di sacrifici. Era il coronamento della vicenda risorgimentale che faceva dell'Italia uno stato libero unito "sotto" la monarchia Sabauda, nato per volontà di popolo (si disse- ma alla partecipazione elettorale mancava proprio il popolo che non fu "invitato") desideroso di realizzare, finalmente, le grandi speranze e le grandi attese di uomini che per questi ideali avevano combattuto, sofferto, operato. Proprio in questa realtà di differenziazione regionale, nasce il movimento letterario del Verismo : nel sud vissero i più grandi scrittori: in Sicilia De Roberto, Capuana, Verga. Questi scrittori rivelano ttenzione alla realtà nella dimensione del quotidiano: prediligonoa narrazione realistica e scientifica degli ambienti e dei soggetti della narrazione. Pttosto che raccontare emozioni, lo scrittore presenta la situazione quotidiana come una indagine scientifica, ricercando le cause del suo evolversi, che sono sempre naturali e determinate (determinismo o darwinismo sociale); anche la vita interiore dell'uomo, spiegabile in termini psico–fisiologici, può essere oggetto di uno studio scientifico o sociale. Ispirarsi al vero è desumere la materia della propria opera da avvenimenti realmente accaduti e preferibilmente contemporanei, limitandosi a ricostruirli obiettivamente ovvero rispecchiando la realtà in tutti i suoi aspetti e a tutti i livelli sociali. A sud, il verismo, non essendovi un proletariato urbano come in Francia, soggetto che aveva ispirato Zola, si interessò all'umile vita dei contadini e dei pastori con le loro passioni elementari. Teorico del verismo è considerato Luigi Capuana, che è anche uno scrittore interessante: nell'insieme, la sua opera è un vasto interrogativo sul ruolo determinante giocato dai luoghi, dall'epoca e dalle condizioni sociali e professionali sul carattere dell'individuo, secondo il procedimento del romanzo sperimentale francese. Per comprendere l'innovazione sul piano formale del Verismo, ci riferiremo ai Malavoglia di Verga. Qui, alla voce del narratore onnisciente, si sostituisce un anonimo autore popolare, che offre un repertorio di situazioni e fatti in cui l'autore non entra mai in scena. I Malavoglia, come dice Russo, è un romanzo polifonico dove ogni personaggio è oggetto della parola del narratore e soggetto della propria parola. Si parla, infatti, di una voce camaleontica. Verga utilizza svariate tecniche innovative: lo straniamento, ad esempio, consiste nella differenza tra il punto di vista del personaggio e quello della voce narrante (nel secondo capitolo il disastro della Provvidenza, non è visto con l'ottica dei Malavoglia, ma con l'ottica degli abitanti del villaggio); oppure consiste nella rappresentazione di ciò che è normale come strano (nel quarto capitolo i Malavoglia chiedono a Don Silvestro come pagargli il debito: egli convince Maruzza a rinunciare all'ipoteca sulla casa); oppure consiste nella rappresentazione di ciò che è strano come normale (nel quindicesimo capitolo, agli occhi dei paesani la decisione di non mandare il nonno all'ospedale, "normale" per l'affetto diventa strana per chi si pone nell'ottica dell'utile). Verga usa anche concatenazioni cioè ripetizioni di una frase tra una sequenza l'altra, creando effetto di circolarità (alla fine del terzo capitolo. "e la barca era piena più di quaranta onze di lupini; all'inizio del quarto cap.. "il peggio era che lupini li avevano presi a credenza"). In un secolo di profonde innovazioni, anche la letteratura assorbe le influenze del pensiero scientifico. Il processo di unificazione dell'Italia, come ho detto, si è realizzato attraverso l'espansione del regno di Sardegna: allo stato italiano furono automaticamente estese le leggi dello stato piemontese; lo stesso accadde per la sua costituzione: lo Statuto Albertino. Esso era stato emanato nel 1848 dal re Carlo Alberto per il piccolo regno di Sardegna; esso divenne così la legge fondamentale del regno d'Italia. Lo Statuto Albertino era stato emanato dal re Carlo Alberto il 4 marzo 1848 per far fronte ai moti insurrezionali che si stavano diffondendo in tutta Europa. Essa era una costituzione concessa dall'alto (ottriata), senza alcuna consultazione democratica; lo stesso termine "statuto" venne preferito a quello di "costituzione", che ricordava le idee radicali della rivoluzione francese. Nello Statuto Albertino il ruolo centrale all'interno dello stato è ancora assegnato al re. Egli detiene il potere esecutivo e lo esercita attraverso i "suoi" ministri che ha il potere di nominare e di revocare. I ministri sono responsabili del loro operato solo di fronte al re e non di fronte al parlamento. Il re conserva, inoltre, una notevole influenza nel potere legislativo. Esso è affidato a un parlamento bicamerale: ma soltanto la Camera dei deputati è elettiva, sia pure a suffraggio limitato per censo, mentre il Senato è formato da membri nominati a vita da parte del re. Le camere si riuniscono esclusivamente su convocazioni del re (non hanno il potere di autoconvocarsi) e al re è riconosciuto il potere di sciogliere la Camera dei deputati e di indire nuove elezioni. Inoltre le leggi, una volta deliberate dalle due Camere, devono avere la sanzione (approvazione) del re: se egli la rifiuta, la legge non può entrare in vigore. Lo Statuto Albertino non offre sufficienti garanzie di indipendenza al potere giudiziario; afferma infatti che "la giustizia emana dal Re ed è amministrata a suo nome dai Giudici che egli istituisce" (art.68). Ai giudici è riconosciuta l'inamovibilit`, ma solo dopo tre anni di esercizio. Lo Statuto riconosce le principali libertà dei cittadini, ma lo fa in modo generico e lascia alla legge ampie possibilità di limitarne la portata. Lo Statuto prefigura inoltre uno stato confessionale: "La Religione Cattolica, Apostolica e Romana" dice l'art.1 "è la sola Religione dello stato", mentre gli altri culti sono semplicemente "tollerati conformemente alla legge". Lo Statuto non prevede nessuna particolare procedura per modificare le proprie norme e lascia, implicitamente, questa funzione al parlamento mediante l'adozione di leggi ordinarie. E' dunque una costituzione di tipo flessibile. Lo stato Albertino fu poi sostituito dalle leggi fasciste: una serie di leggi liberticide le quali, instaurando in Italia la dittatura, ben presto travolsero i contenuti più liberali dello Statuto Albertino, che pure formalmente continuò a rimanere in vigore. Dalla legalizzazione delle squadre armate fasciste alle nuove leggi elettorali, elaborate su misura per dare al Partito Nazionale Fascista il pieno controllo del Parlamento; dalla istituzione del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, composto da giudici legati al regime, al perseguimento penale del dissenso politico e all'introduzione della censura; dal divieto di sciopero all'abolizione delle libertà sindacali; dalle nuove prerogative autoritarie, che vennero riconosciute a Mussolini come capo del Governo, alla legge che trasformò il Gran Consiglio del Fascismo, organo interno del Partito Nazionale Fascista, in organo costituzionale dello Stato e alla abolizione del sistema elettivo parlamentare con la costituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni. Nell'aprile del 1945 gli alleati angloamericani e le organizzazioni partigiane portarono a compimento la liberazione di tutto il territorio nazionale dai tedeschi occupanti e dagli ultimi fascisti loro alleati. Erano trascorsi più di vent'anni di dittatura e si era consumata una sconfitta militare nella più sanguinosa guerra che la storia dell'umanità avesse mai conosciuto e di cui lo stesso fascismo italiano fu corresponsabile. Si trattava ora di porre le basi del nuovo Stato, di un'Italia diversa in cui gli stessi valori che avevano ispirato la Resistenza e la lotta contro il nazifascismo, i valori della democrazia, della libertà, della giustizia e della solidarietà, fossero posti alla base della nuova società a cui la maggioranza degli italiani aspirava. Già con il Patto di Salerno dell'aprile del 1944, stipulato tra il Comitato di Liberazione Nazionale e la Monarchia, si decise, tra l'altro, di sospendere la scelta tra la Monarchia e la Repubblica fino alla fine della guerra. Dal 1928 il popolo italiano non era più stato chiamato alle urne e, finalmente, il 2 giugno 1946 si celebrarono le elezioni. Ad ogni italiano, uomo o donna di almeno 21 anni di età, vennero consegnate due schede: una per la scelta fra Monarchia e Repubblica, il cosiddetto referendum istituzionale, l'altra per l'elezione dei 556 deputati dell'Assemblea Costituente sulla base di un sistema elettorale proporzionale a liste concorrenti e collegi elettorali plurinominali. Esse rappresentarono, nella storia del Paese, le prime elezioni che si svolsero a suffragio universale, maschile e femminile; per la prima volta il diritto di voto venne esteso anche alle donne. Erano ormai lontani i tempi dell'Unità d'Italia in cui le percentuali degli aventi diritto al voto per la Camera dei Deputati si aggiravano attorno al 2% della popolazione; nel 1946 gli aventi diritto al voto rappresentavano il 61,4% degli italiani; bisognava però ancora attendere l'estensione del diritto di voto anche ai diciottenni nel 1975 perché la soglia degli aventi diritto superasse il 70% dell'intera popolazione. Il 9 maggio 1946 l'abdicazione del Re Vittorio Emanuele III a favore del figlio Umberto II fu l'estremo tentativo di presentare al popolo la dinastia dei Savoia con un nuovo volto meno compromesso con il regime fascista; tuttavia gli esiti del referendum istituzionale furono favorevoli alla Repubblica. Circa 12 milioni e settecentomila italiani, contro 10 milioni e settecentomila, decisero che l'Italia doveva trasformarsi da Regno in Repubblica, con un Capo dello Stato elettivo. Umberto II, l'ultimo Sovrano d'Italia, passò alla storia con l'appellativo di "Re di maggio". Dopo qualche temporeggiamento e la comunicazione dei dati definitivi, il 13 giugno 1946 egli decise di lasciare il Paese con la sua famiglia e andarsene in esilio, riconoscendo la sconfitta e la fine della Monarchia. Il 18 giugno 1946 la Corte di Cassazione, preso atto dei voti espressi, sul cui computo non mancarono polemiche, proclamò ufficialmente la vittoria della Repubblica. Il 2 giugno 1946 è ancora oggi ricordato come l'anniversario della Repubblica anche se la festa civile è stata soppressa e la ricorrenza viene festeggiata la prima domenica del mese. Fu evidente ed imperdonabile per la maggior parte del popolo italiano la responsabilità politica e morale del Re nell'ascesa della dittatura e nella guerra. È significativa la prima affermazione contenuta nel primo articolo della futura Costituzione repubblicana: "L'Italia è una Repubblica...", a cui corrisponde l'ultima norma, l'art. 139, che chiude l'articolato con la prescrizione: "La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale", a sottolineare il valore perenne e irrevocabile di quella scelta popolare. Il primo Presidente della Repubblica italiana fu Luigi Einaudi, eletto dal Parlamento secondo le regole contenute nella nuova Costituzione (tit. II della seconda parte) il 12 maggio 1948, dopo le prime elezioni politiche vere e proprie del 18 aprile dello stesso anno. Fino ad allora assunse le funzioni di Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola che venne eletto dall'Assemblea Costituente appena insediatasi. Gli esiti dell'elezione dei 556 componenti dell'Assemblea Costituente che, in rappresentanza del popolo, avrebbero elaborato la nuova Costituzione, furono per lo più favorevoli a quei partiti politici che avevano combattuto la dittatura e, in particolare nel corso della Resistenza, si erano riorganizzati assumendo un ruolo guida nella lotta armata contro il nazifascismo e nella transizione dallo Stato fascista al nuovo Stato. Si trattava principalmente dei tre grandi partiti di massa che avrebbero caratterizzato anche la vita politica italiana nei decenni successivi all'entrata in vigore della Costituzione: la Democrazia Cristiana, che ebbe il 35,2% dei voti; il Partito Socialista di Unità Proletaria, con il 20,8%; il Partito Comunista italiano, con il 19%. Il 25 giugno 1946 venne insediata l'Assemblea Costituente. Per la prima volta gli italiani avevano una Costituzione elaborata direttamente dai loro rappresentanti liberamente e democraticamente eletti. Lo Statuto Albertino del 1848, che dopo un secolo di vita era giunto al suo definitivo tramonto, era una Costituzione concessa dall'alto, dal Sovrano ai suoi sudditi e, pur rappresentando la risposta del Re Carlo Alberto ai moti insurrezionali che si stavano diffondendo in tutta Europa, nacque senza alcuna consultazione democratica. Ben altro contenuto innovativo avrebbe avuto se fosse stata il frutto di un'Assemblea eletta dal popolo. La nuova Costituzione repubblicana nacque invece dalla prima grande lotta di popolo in Italia; furono i capi della Resistenza e dei partiti antifascisti che avevano imbracciato le armi e patito la persecuzione politica, il confino e il carcere fascista, i nuovi leader della classe politica emergente, scelti dallo stesso popolo, ad elaborare la nuova Costituzione. Era la prima volta nella storia d'Italia che le grandi masse popolari partecipavano direttamente e consapevolmente al loro destino, in risposta alla dittatura e alla guerra. La Costituzione si affermò come patto fondamentale tra forze politiche diverse, ma accomunate dall'antifascismo e da una forte aspirazione ideale nata nella guerra di Liberazione. Ad essa i Costituenti decisero di imprimere il carattere della rigidità, collocandola al vertice di tutto l'ordinamento giuridico. Si tratta di una caratteristica propria di quasi tutte le Costituzioni democratiche del novecento legata, appunto, al valore di patto fondamentale tra le diverse forze politiche che esse assumono. All'opposto, lo Statuto Albertino, come in genere le Costituzioni liberali dell'ottocento, era una Costituzione flessibile, modificabile cioè dal Parlamento con il normale procedimento di approvazione delle leggi ordinarie; ma si trattava di un Parlamento in parte di nomina regia e in parte eletto a suffragio ristretto, che rappresentava gli interessi della Corona e dell'alta borghesia e che mai avrebbe potuto minacciare modifiche radicali a una Costituzione decisamente moderata. La Costituzione italiana del 1948 si apre, come è noto, con dodici articoli contenenti i "principi fondamentali" della carta costituzionale stessa. L'indicazione di alcuni principi fondamentali della Costituzione, distinti, anche se coordinati, dai singoli diritti enumerati successivamente dalla carta costituzionale non apparteneva alla tradizione italiana. Lo Statuto albertino, già così parco nella definizione dei diritti di libertà, non conteneva nessun accenno ai diritti fondamentali: che, nella tradizione liberale erano, di solito, consegnati ad atti posti al di fuori delle costituzioni, anche se tali atti erano considerati parte integrante di esse. Al di là del loro contenuto si riteneva che i principi fondamentali fossero diversi dalle altre norme contenute nella Costituzione solo perché gli interpreti della Costituzione e delle leggi (la Corte Costituzionale, anzitutto, ma anche la magistratura e la pubblica amministrazione) avrebbero dovuto ispirarsi ad essi nella lettura delle singole norme della Costituzione. Di più, essi avrebbero dovuto costituire il criterio guida del parlamento nell'approvazione della legislazione ordinaria destinata ad incidere, nel futuro, in tutta quella serie, assai numerosa, di materie già regolate dalla Costituzione. Il tema dei principi fondamentali si collega, per questi motivi, a quelli della rigidità della Costituzione ed a quello del rapporto fra l'indirizzo politico costituzionale e l'indirizzo politico di maggioranza. L'introduzione del principio di rigidità della costituzione e l'enunciazione, nel corpo di questa, di alcuni principi fondamentali costituiscono, allora, da questo punto di vista, due aspetti del medesimo fenomeno storico. Con le costituzioni del secondo dopoguerra termina, infatti, l'età dell'assolutismo parlamentare. L'affermazione di un "patto costituzionale" ha infatti un senso solo se quel patto esprime la volontà delle forze politiche dominanti di far permanere quel patto per un periodo storico indeterminato. Il parlamento, inteso come luogo nel quale si esprimono attraverso la rappresentanza politica, una maggioranza ed una minoranza, perde, quindi, il potere di disporre della costituzione. Il principio di maggioranza, fino ad allora dotato di una forza pressoche' assoluta, si arresta di fronte alle norme costituzionali. L'introduzione, fra gli organi costituzionali, della corte costituzionale, chiamata ad interpretare la legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge pone, a ben vedere, questo organo al di sopra del parlamento e del governo. Dunque, il principio della rigidità della costituzione si sostituisce, nella gerarchia dei valori, al principio dell'onnipotenza parlamentare. Del tutto evidenti appaiono, inoltre, le connessioni fra il principio democratico e gli altri principi fondamentali rivolti alla tutela della persona. La tutela delle libertà civili e le condizioni che assicurino una effettiva partecipazione dei cittadini alla vita politica del paese costituiscono la condizione stessa del funzionamento effettivo della democrazia. Una Costituzione contemporanea, come e' la nostra, integra, tuttavia, il principio personalista con quello pluralista. Secondo l'art. 2 Cost., infatti, la personalità dell'uomo, e, quindi i suoi diritti inviolabili, si svolgono "nelle formazioni sociali". Dunque, in base a questa impostazione, appare del tutto conseguente che venga tutelato non soltanto il diritto degli individui di promuovere liberamente "formazioni sociali" (non soltanto associazioni), volte ad un pluralismo di fini che e' limitato soltanto (art. 18 Cost. ) dal divieto di proporsi quei fini che sono vietati ai singoli dalla legge penale. La definizione della Repubblica come "fondata sul lavoro" e'stata oggetto di anche contrapposte interpretazioni. E' del tutto evidente, però, che lo svolgimento di un'attività lavorativa non appare condizione per il godimento dei diritti della persona: sia che si tratti di quelli di libertà individuale, sia che si tratti di quelli relativi alla sfera politica. Il principio lavorista appare, invece, essere un diritto spettante agli individui nella sfera economico-sociale. Non diritto ad un astensione, al riconoscimento di un limite, per l'attività dei pubblici poteri, ma, al contrario, diritto ad ottenere un attivo intervento da parte dello Stato perché siano realizzate tutte le possibili opportunità di lavoro per i cittadini. Da questo punto di vista si pone, dunque, il difficile problema di quali possano, o debbano, essere gli strumenti attraverso i quali lo Stato rende effettivo tale diritto. Gli art. 41 e 43 della Costituzione prevedono, a questo proposito, anche la possibilità di forme di intervento diretto dello Stato nella sfera economica. In che misura tale intervento si debba realizzare, quale debba essere il rapporto fra lo Stato-interventista e lo Stato regolatore dell'attività economica (come e'oggi piu'frequentemente sottolineato) sembra essere rimesso alle scelte concrete dell'indirizzo politico. Il problema della valutazione di situazioni economiche alternative in termini di desiderabilità delle stesse da parte della collettività e dei possibili interventi dello Stato e degli altri operatori pubblici in questa direzione, è oggetto della c.d. "economia del benessere". I criteri da essa utilizzati sono l’efficienza nell’allocazione delle risorse e l’equità nella loro distribuzione fra gli individui che compongono la collettività. La prima viene definita da Pareto in termini di benessere degli individui: si ha un’efficiente allocazione delle risorse quando non è possibile alcuna riallocazione per aumentare il benessere di un solo individuo senza diminuire quello di un altro. L’analisi compiuta da Pareto è alla base del I teorema fondamentale dell’economia del benessere che dice: "qualsiasi sia l'allocazione iniziale, gli scambi con prezzi dati e di equilibrio generano un'allocazione lungo la curva dei contratti, e quindi tutti gli equilibri concorrenziali sono Pareto-efficienti." Perciò ogni equilibrio economico che si determina in condizioni di concorrenza perfetta costituisce un ottimo paretiano che indica appunto una situazione economica dalla quale non ci si può spostare senza compromettere il benessere di un solo individuo. In sintesi, l’efficienza paretiana si realizza quando il tasso marginale di trasformazione (TMT) di un prodotto in un altro è uguale al tasso marginale di sostituzione (TMS) tra i beni per i consumatori per cui i rapporti dei prezzi dei beni al consumo saranno uguali ai rapporti dei prezzi alla produzione. Questo garantisce che i piani efficienti dei produttori siano compatibili con quelli dei consumatori, a partire da una certa distribuzione iniziale delle risorse tra gli individui. Gli ottimi saranno, dunque, infiniti, uno per ogni possibile punto di partenza e tra di essi occorre individuare l’ottimo preferito dalla collettività, quello che rende massimo il benessere sociale (bliss point o ottimo degli ottimi). Nell’ottica paretiana, secondo cui l’individuo è l’unico giudice dei propri interessi, le utilità dei singoli non sono confrontabili tra di loro e l’unica possibilità è quella di creare un ordinamento delle preferenze individuali in riferimento ai diversi stati dell’economia.

Otterremo così una graduatoria di curve di indifferenza individuali indicanti le combinazioni di beni rispetto alle quali il consumatore è indifferente: l’utilità aumenta soltanto quando si passa da una curva di indifferenza inferiore ad una superiore. Nella figura 8.3 trasferiamo questo meccanismo al livello sociale e ipotizziamo di rappresentare le preferenze collettive con una mappa di curve di indifferenza sociale: il bliss point corrisponderà al punto F’ in cui la più elevata curva d’indifferenza sociale S3 è tangente alla frontiera del benessere, che rappresenta il livello massimo di utilità raggiungibile da un individuo in relazione al livello di utilità raggiunto dall’altro, attraverso il più efficiente utilizzo delle risorse. È proprio qui che si inserisce la questione dell’equità che, trascurata dalla teoria dell’ottimo paretiano la quale considera unicamente l’aspetto dell’efficienza, è alla base del II teorema fondamentale dell’economia del benessere. Il secondo teorema fondamentale dell'economia del benessere dice: "qualsiasi punto sulla curva dei contratti, cioè qualsiasi allocazione Pareto-efficiente, può essere raggiunta tramite uno scambio conorrenziale a partire da una qualche distribuzione iniziale delle risorse". (Questo teorema assume che le preferenze dei due individui siano convesse, altrimenti il teorema può non valere).

In sostanza, se partendo da una certa distribuzione delle risorse si giunge ad un punto efficiente ma non equo, si può, secondo il suddetto teorema, raggiungere una qualsiasi altra situazione di ottimo modificando adeguatamente quella distribuzione di risorse e lasciando poi all’operare del mercato concorrenziale il compito di raggiungere l’efficienza. Ma come si forma la supposta graduatoria delle diverse situazioni distributive possibili? E quali giudizi di valore vengono utilizzati per scegliere l’alternativa migliore? E ancora, in che modo lo Stato dovrebbe intervenire per modificare in maniera equa i parametri esistenti senza alterare la capacità del mercato di raggiungere l’efficienza? La costruzione della funzione del benessere sociale (FBS) è alla base di quelle teorie che considerano il benessere della collettività in funzione di quello dei singoli individui che la compongono, e quindi dell’utilità da essi goduta. Questo concetto è espresso graficamente dalle curve di indifferenza sociale che descrivono le varie combinazioni di utilità degli individui rispetto alle quali la società è appunto indifferente perché apportano ad essa lo stesso livello di benessere. L’ipotesi sostenuta dal teorema fondamentale dell’economia del benessere prevede, per il raggiungimento del massimo benessere collettivo, una prima fase di ridistribuzione delle risorse effettuata dallo Stato, per riequilibrare situazioni individuali ingiustamente sperequate, e poi il ricorso al meccanismo del mercato concorrenziale cui affida il compito di realizzare l’efficienza. Lo Stato naturalmente utilizza gli strumenti che ha a disposizione, principalmente imposte e sussidi, con i quali realizza dei trasferimenti di risorse. Le modalità attraverso cui il sistema di concorrenza perfetta conduce all’allocazione ottimale di queste risorse sono oggetto: così se non ci sono interferenze nel sistema, anche l’obiettivo dell’efficienza, oltre quello dell’equità demandato alla precedente fase ridistributiva, può dirsi centrato. A questo punto lo Stato non ha più ragione di intervenire se non per garantire il funzionamento del sistema concorrenziale. Ma non è tutto così semplice: innanzitutto ci sono le difficoltà che si presentano nella prima fase, che è quella redistributiva, a causa delle carenze informative non solo dello Stato, che deve scegliere le modalità di intervento, ma anche dei cittadini ai quali spesso mancano gli strumenti per valutare nella maniera più opportuna le conseguenze delle proprie scelte. In secondo luogo è necessario fare qualche considerazione anche sullo L’appropriata distribuzione delle risorse pone all’operatore pubblico notevoli problemi di determinazione e di realizzazione. In base al II teorema dell’economia del benessere, lo Stato dovrebbe ricorrere a strumenti non distorsivi per evitare che si giunga ad un utilizzo inefficiente delle risorse. Ciò significa che tali interventi non devono alterare il sistema dei prezzi che rappresenta il principale indicatore per le scelte economiche dei produttori e dei consumatori. Gli unici strumenti di questo tipo sono i trasferimenti, imposte e sussidi, in somma fissa (lump sum) che, mantenendo inalterati i prezzi relativi fra i beni, non incidono sulla convenienza delle scelte che gli operatori effettueranno. Tali trasferimenti, però, per soddisfare le ragioni dell’equità, devono anche essere personalizzati, cioè adeguatamente calibrati in funzione delle diverse caratteristiche dei soggetti: dotazioni di risorse, abilità, preferenze, ed altro ancora. È proprio qui che si inserisce l’enorme, e al momento irresolubile, problema informativo che lo Stato deve affrontare. Il principio di equità, infatti, richiede che individui identici sotto tutti gli aspetti siano trattati alla stessa maniera (equità orizzontale) e che coloro che sono in grado di pagare imposte maggiori rispetto agli altri dovrebbero farlo (equità verticale). Si tratta di criteri intuitivamente accettabili che però mostrano, ad un’analisi più approfondita, l’ambiguità che li caratterizza e che ne rende estremamente difficile l’attuazione. Infatti, due persone non sono mai completamente uguali ma presentano sempre dei caratteri peculiari. Inoltre, tra le innumerevoli differenze, bisogna anche distinguere quelle di scarso valore, che risultano quindi trascurabili, da quelle più rilevanti dalle quali non si può prescindere. La mancanza di informazioni complete da parte dello Stato porta all’applicazione di strumenti che alterano i termini delle scelte degli operatori generando distorsioni nel sistema economico. Consideriamo, ad esempio, l’ipotesi di un’imposta sul reddito per verificare se essa modifica l’offerta di lavoro. Normalmente un lavoratore, che non possiede redditi di altra natura, distribuisce il suo tempo tra lavoro e riposo. Lavorando un certo numero di ore guadagna un certo reddito che utilizza per soddisfare i suoi bisogni. Se desidera un reddito maggiore per aumentare i suoi consumi dovrà lavorare di più e contemporaneamente dovrà rinunciare ad una parte più o meno consistente del suo tempo libero. L’incentivo a lavorare cesserà quando sarà stato raggiunto un livello tale di reddito da rendere il tempo libero molto più prezioso mentre la prospettiva di un consumo di unità addizionali di beni diventerà meno interessante. L’applicazione di un’imposta proporzionale che decurta il salario destinandone una parte allo Stato, avrà due effetti: il primo spinge verso l’aumento dell’offerta di lavoro perché l’individuo, pagando l’imposta, si è impoverito ed è incentivato a lavorare di più per poter aumentare le sue entrate (effetto di reddito); il secondo induce il lavoratore a sostituire il consumo di tempo libero a quello degli altri beni ossia a lavorare di meno (effetto di sostituzione) perché l’imposta proporzionale ha ridotto la remunerazione dell’ora di lavoro. In questo modo essa determina una distorsione nelle scelte del lavoratore perché ha reso meno conveniente intensificare lo sforzo produttivo. Per evitare ciò dovrebbero essere utilizzate imposte neutrali e adeguatamente diversificate in base ad informazioni che però non sono conoscibili. Come abbiamo visto i due effetti spingono in direzioni opposte: quello di reddito verso l’aumento dell’offerta di lavoro mentre quello di sostituzione verso la riduzione della stessa. Così, a seguito dell’imposta, il nuovo punto di equilibrio può essere M1 sulla curva di indifferenza b, e in tal caso prevarrà l’effetto di sostituzione perché l’offerta di lavoro da RT si riduce a RT1; oppure può essere il punto M2 sulla curva c e in tal caso prevarrà l’effetto di reddito con un aumento dell’offerta di lavoro fino a RT2. A volte può anche capitare che i due effetti si neutralizzino a vicenda e che quindi non si determini alcuna modificazione dell’offerta di lavoro. In quest’ultimo caso si può forse dire che la distorsione non si verifichi? A questa domanda possiamo rispondere confrontando gli effetti dell’imposta proporzionale con quelli dell’imposta in somma fissa perché quest’ultima, non modificando il calcolo di convenienza nelle scelte dei lavoratori, non ne altera i termini ed ha soltanto un effetto di reddito. Se ipotizziamo di conoscere il vincolo di bilancio e le preferenze dell’individuo espresse dalle curve di indifferenza: in assenza di imposizione il punto di equilibrio sarà E. L’imposta lump sum provoca uno spostamento parallelo verso il basso del vincolo di bilancio, lasciandone immutata l’inclinazione. La remunerazione del lavoro, infatti, rimane invariata nel senso che il soggetto ottiene per un ora supplementare di lavoro lo stesso incremento di reddito che avrebbe ricevuto prima dell’imposta. L’imposta in somma fissa ha, quindi, soltanto un effetto di reddito: i contribuenti vedranno peggiorata la propria situazione e decideranno di lavorare di più (nel nuovo punto di equilibrio Ê si avrà un’offerta di lavoro pari a 50 ore settimanali). Con l’imposta proporzionale, invece, si ha una modifica dell’inclinazione del vincolo di bilancio perché il lavoro è divenuto meno remunerativo e conseguentemente meno allettante: scegliendo l’aliquota in modo da mantenere il contribuente sullo stesso livello di utilità raggiunto con l’imposta in somma fissa (cioè muovendosi lungo la stessa curva di indifferenza), si otterrà il punto di equilibrio E* in cui l’offerta di lavoro è minore (40 ore settimanali) proprio a causa dell’effetto di sostituzione. Inoltre, ragionando sempre a parità di sacrificio, con l’imposta proporzionale si avrà un gettito minore. Questo, infatti, è misurato dalla differenza tra i vincoli di bilancio prima e dopo l’imposta e nel grafico è chiaramente visibile il gettito addizionale, dato dalla distanza E*F, che si può ottenere con l’imposta in somma fissa. In conclusione, dunque, possiamo dire che un’imposta proporzionale è sempre distorsiva perché, anche se l’offerta di lavoro rimane invariata, sarebbe stato comunque possibile, con un’imposta in somma fissa, ottenere lo stesso gettito con una minore perdita di benessere individuale (basta tracciare nel grafico un nuovo vincolo di bilancio per l’imposta lump sum, parallelo al precedente e passante per il punto E*). Se diamo per noti la retta del reddito RS e la curva di indifferenza a da cui ricaviamo il punto di equilibrio E. L’imposta proporzionale, modificando la retta del reddito, che ora è RS1, sposta l’equilibrio nel punto E1 in cui lo sforzo lavorativo aumenta da RT a RT1, mentre si riduce il tempo libero. Con un’imposta progressiva si avrà, in luogo della retta del reddito, la curva RS2 dove la convessità sta ad indicare che il tasso d’imposta cresce all’aumentare del reddito. Mantenendo inalterato il gettito d’imposta, il nuovo equilibrio sarà E2 in cui l’incentivo a lavorare sarà più ridotto rispetto all’imposta proporzionale (da RT1 a RT2) perché la progressività ha un impatto distorsivo maggiore sulle scelte del lavoratore. Anche in relazione alla determinazione dei sussidi, e più in generale delle prestazioni a favore di alcune categorie di cittadini, l’informazione riveste un ruolo fondamentale e allo stesso tempo problematico per sapere chi ha diritto a cosa e in che misura. Ovviamente, ci si riferisce agli individui più svantaggiati a causa della posizione sociale che occupano oppure delle gravi malattie che li affliggono, tutti fattori che inevitabilmente incidono in maniera negativa sulla loro realtà. Sostenere con un sussidio o con un’altra prestazione queste fasce deboli significa appunto rispondere all’esigenza di una maggiore equità nella distribuzione delle risorse all’interno della collettività. Ma come personalizzare gli interventi senza scontrarsi ancora una volta con il problema della raccolta delle informazioni necessarie, associato alla mancanza di strumenti idonei da parte dello Stato, alla costosità dal punto di vista amministrativo della individuazione dei criteri di eleggibilità (esistenza del diritto) e al disincentivo, da parte dei cittadini, ad offrire informazioni complete e sincere? Più in particolare, sono stati individuati (P. Van Parjis, 1996) quattro possibili aspetti di questa problematica:

  1. l’individuo decide che non conviene lavorare perché altrimenti, superando la soglia del reddito minimo, rimane escluso dal sussidio;
  2. l’individuo che già gode del sussidio non vuole rinunciare ad esso perché c’è troppa incertezza in un mercato del lavoro che spesso offre soltanto occupazioni precarie e non consente di considerare serenamente la possibilità di rischiare di più per sostenere con i propri mezzi le necessità della vita;
  3. la difficoltà di trovare un lavoro dipende anche dal fatto che le imprese preferiscono offrire impieghi ben retribuiti a personale qualificato piuttosto che lavori a basso prezzo cui potrebbe accedere una manodopera meno dotata con il rischio di compromettere l’efficienza della produzione;
  4. il protrarsi nel tempo di queste condizioni di difficoltà e di incertezza rende sempre meno probabile la possibilità di rientrare nel mercato del lavoro.

Il concetto di meritorietà ci permette di affrontare il problema delle carenze informative quando queste riguardano non più lo Stato ma i destinatari degli interventi pubblici. La disinformazione, spesso interpretata come carenza di formazione cioè come mancanza da parte dei consumatori degli strumenti indispensabili per ben ponderare le conseguenze delle proprie azioni, conduce a scelte difettose che rendono l’apprezzamento da essi espresso su determinati beni (il loro merito o de-merito) insufficiente o eccessivo rispetto a quanto accadrebbe nell’ipotesi di scelte informate e quindi razionali. Le preferenze comunitarie rappresentano quei valori comuni che sono il risultato di un processo storico di interazione collettiva da cui discendono le valutazioni in termini di meritorietà attribuite a determinati beni nell’ambito di una certa comunità, come frutto del proprio vissuto e delle proprie esperienze. Pensiamo ad esempio all’importanza che, nel nostro Paese, rivestono la tutela ambientale, l’istruzione, il controllo sugli stupefacenti e sulla prostituzione: culture diverse possono sottovalutare questi valori ed esprimerne invece degli altri. In questi casi si presume che lo Stato, avendo un’informazione maggiore che gli consente di valutare la portata a le conseguenze delle azioni da una prospettiva più ampia, debba intervenire per correggere o sostituire la sovranità degli individui nelle scelte che si discostano da tali valori allo scopo di massimizzare il loro vero benessere. Così può decidere di tassare i beni di cui vuole scoraggiare il consumo, può disporre lo stanziamento di sussidi al fine di aumentare il potere d’acquisto degli individui e permettere loro un utilizzo di quantità più elevate dei beni che andrebbero maggiormente consumati oppure decidere di offrirli in natura direttamente agli interessati. Un altro aspetto del II teorema, connesso stavolta alla fase allocativa demandata al mercato, è la possibilità che i gruppi con maggiore potere economico impongano agli altri le proprie preferenze attuando così delle discriminazioni ingiustificate e ingiustificabili da un punto di vista etico. Ad esempio chi ha più potere può decidere di dare lavoro soltanto ai bianchi, violando così il principio dell’uguale dignità e rispetto degli esseri umani, oppure può scegliere i suoi dipendenti soltanto tra coloro che professano un particolare credo religioso in tal modo obbligando chi fosse di religione diversa, ma avesse comunque un bisogno impellente di lavorare, a modificare le proprie convinzioni quanto meno al cospetto del proprio datore. E ancora possiamo menzionare le discriminazioni politiche e quelle sessuali. Il punto è che il meccanismo di mercato se da una parte garantisce agli individui la libertà di scelta, in quanto nell’ipotesi suddetta essi possono comunque decidere di accettare o meno il lavoro che viene loro proposto, dall’altra non riesce ad assicurare il rispetto delle cosiddette libertà civili. Ci sono ancora dei sostenitori della collaborazione tra etica ed economia che addirittura prospettano la possibilità di un’unione sinergica, di un’unione cioè che possa utilizzare al meglio gli aspetti dell’una e dell’altra prospettiva per ottenere esiti che non potrebbero mai raggiungere singolarmente. L’etica, infatti, può dimostrarsi di grande importanza per interpretare gli aspetti non economici che il perseguimento dell’efficienza tende a sottovalutare, l’economia dal canto suo, attraverso la metodologia dell’analisi razionale, può garantire la coerenza delle scelte e la corrispondenza dei mezzi utilizzati agli scopi prefissati. Per comprendere meglio questa posizione è necessario considerare più da vicino la redistribuzione per motivi di efficienza per cui essa diventa un obiettivo desiderabile non solo perché favorisce i più svantaggiati ma anche perché produce benefici per tutta la collettività, compresi coloro che, in virtù delle migliori condizioni in cui si trovano, sono tenuti al pagamento delle tasse per finanziare il progetto redistributivo. Nelle teorie dell’equità, come si è appena sottolineato, la redistribuzione è finalizzata fondamentalmente a produrre dei vantaggi per coloro che, essendo inizialmente sfavoriti, ricevono dei benefici e quindi migliorano la propria situazione. Seguendo questo ragionamento, i modelli dello scambio volontario, invece, si basano sull’idea che gli individui più ricchi, benchè tali, possano essere interessati al benessere altrui e, ritenendo inefficiente l’assetto distributivo attuale, siano disposti a trasferire una parte delle proprie sostanze ai più poveri in maniera spontanea, facendo in questo modo venir meno la necessità di un processo redistributivo attuato coattivamente dallo Stato attraverso il sistema fiscale. In due prospettive dello scambio volontario, quella dell’interesse al risultato e quella dell’egoismo illuminato, la distribuzione del reddito può essere considerata come un bene pubblico puro dal momento che ne presenta tutte le caratteristiche: indivisibilità, o non rivalità, e non escludibilità. Infatti, ogni individuo si trova di fronte al medesimo status distributivo e ne trae un beneficio da cui non può essere escluso ad opera del godimento di un altro. Lungo questa linea si muovono gli studi di L. C. Thurow (1971) che ipotizza un sistema con tre individui e due beni: uno pubblico (la distribuzione del reddito) e l’altro privato. Ciascun individuo possiede un reddito che utilizza per l’acquisto dei beni disponibili al fine di massimizzare la sua utilità. Egli può desiderare di vivere in una società con una certa distribuzione del reddito ed è disposto a pagare affinché venga preservato o modificato l’assetto attuale oppure ad accettare un pagamento per acconsentire ad uno spostamento. Sulla base di queste indicazioni possiamo costruire le curve individuali del beneficio la cui pendenza indica le condizioni richieste da ciascuno per determinare una modificazione nella distribuzione del reddito.

Il modello imprenditoriale prevalente è stato da sempre quello dell’impresa for profit, cioè di un’attività economica che ha come obiettivo la massimizzazione dei profitti privati e che consente al tempo stesso, attraverso la sua efficienza, una crescita economica e uno sviluppo tecnologico che andrebbero a beneficio di tutti. In un’economia con un esteso settore pubblico, infatti, la spesa dello Stato può controbilanciare la crisi degli investimenti privati, consentendo una certa stabilità ai profitti. Certamente esistono grandissime differenze tra il nord e il sud del paese: come ad esempio fra Italia e Inghilterra. Il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord è costituito dalle tre regioni della Gran Bretagna (Inghilterra, Scozia e Galles), dalla parte nord-orientale dell’ Irlanda e da circa 5.000 isole. La Gran Bretagna ha una superficie di circa 229.885 Kmq. Essa à bagnata a nord dall’Atlantico, a est dal mare del Nord, a sud dalla Manica, a ovest dal mare d’Irlanda. Le coste sono prevalentemente alte e rocciose, estremamente frastagliate, con insenature e fiordi soprattutto nella parte nord-occidentale della Scozia. Nella stessa zona nord-occidentale è dislocato il maggior numero di arcipelaghi e isole: le Shetland, le Orcadi e le Ebridi; più a sud l’isola di Mull, oltre ad altre minori; nel canale del Nord le isole Jura, Islay e Arran; nel mar d’Irlanda – dove la costa è bassa e spesso paludosa – spiccano le isole di Man e di Anglesey. Fra il Galles e la penisola di Cornovaglia, il canale di Bristol si prolunga nell’estuario del Severn. A ovest della Cornovaglia si stende l’arcipelago della Scilly, nella Manica, il cui litorale alto e dirupato è compreso fra l’estrema punta della Cornovaglia e Dover, si trova l'isola di Wighty; al largo della penisola francese del Cotentin le isole Normanne (possedimento della Corona). La costa orientale, bagnata dal mare del Nord di nuovo bassa e priva di isole di qualche importanza, è caratterizzata dalla penisola di Kent, dal profondo estuario dell’Humber e, nella zona scozzese, delle insenature del Firth of Forth, del Firth of Tay e del Moray Firth. I rilievi della Gran Bretagna sono poco elevati e presentano forme molto erose. Nella Scozia si distinguono tre sistemi montuosi: le terre alte settentrionali, con la massima altezza nel Ben Nevis (m 1.343); i Grampiani o terre alte meridionali, con la massima altezza nel Ben Macdhui e le terre elevate meridionali, con la massima altezza nel monte Merrick. In Ingghilterra si trovano i monti Pennini ed i rocciosi monti del Cumberland, spostati verso il mar d’Irlanda. L’ossatura del Galles, vasta penisola affacciata sul canale di San Giorgio, è costituita dai monti Cambrici. Il resto del territorio è formato da vaste pianure, intervallate a zone collinari. La Gran Bretagna è particolarmente ricca di fiumi abbondanti d’acqua e adatti alla navigazione interna, anche se non molto sviluppati in lunghezza. Il maggiore è il Tamigi che bagna Londra. Al versante orientale appartengono anche il Tay, il Forth, il Tyne che bagna Newcastle, l’Ouse ed il Trent . Appartengono al versante occidentale il Clyde, l’Eden il Marsey che forma l’estuario su cui sorge Liverpool, il Seven . Numerosi i laghi: in Scozia i maggiori sono il Loch Lomond ed il Loch.Ness; nell’Inghilterra settentrionale il Windermere. Il Galles è ricco di piccoli specchi d’acqua, spesso di forma ricolare chiamati tarns. Il clima, influenzato dall’insularità, dalla corrente del Golfo e dai venti oceanici di sud-ovest, è temperato-umido con tempo mutevole, ma escursioni termiche modeste. Le precipitazioni sono abbondanti, ma meno frequenti nelle zone sud-orientali. Particolarmente mite è il clima in Cornovaglia. La vegetazione boschiva, ormai assai ridotta, si trova sia in pianura che sui rilievi. Nulla da rilevare sulla fauna, in gran parte sterminata per l’uso del territorio da parte dell’uomo. L’Irlanda del Nord occupa la zona nord-orientale dell’isola, che corrisponde a circa un quinto della superficie complessiva, e precisamente 14.120 Kmq. Il territorio è caratterizzato lungo le coste da profonde insenature e all’interno da ondulazioni, con alture moderate. I fiumi sono pochi e brevi mentre i laghi sono numerosi. Abbondanti boschi, ma soprattutto i prati ed i pascoli, favoriti dall’abbondanza delle piogge. Il clima è infatti oceanico umido e temperato. La Popolazione è di 55.675.000 abitanti, la densità 228,1 ab./Kmq. La maggioranza della popolazione è rappresentata da inglesi, le cui origini risalgono agli insediamenti angli e sassoni, ma vi sono scozzesi (oltre 5 milioni), gallesi (3 milioni e mezzo), irlandesi (mezzo milione) còrnici (circa 300 mila), che conservano e rivendicano, anche in termini di autonomia culturale, la loro origine celtica o le connotazioni che sopravvissero alle occupazioni normanne. La Capitale è Londra (6.877.000 abitanti). Altre città importanti sono Birmingham (1.013.366 abitanti), Glasgow (896.968 abitanti), Liverpool (606.834 abitanti), Manchester (541.468 abitanti), Sheffield (519.705 abitanti), Leeds (494.971 abitanti), Edimburgo (453.422 abitanti), Bristol (425.203 abitanti). L’Isola di Man e le isole Normanne non fanno parte del Regno Unito e dipendono direttamente dalla Corona, ma hanno istituzioni legislative proprie. L’isola di Man ha una superficie di 588 Kmq e una popolazione di 60.500 abitanti. Il capoluogo è Douglas (19.897 abitanti). Vi si parla la lingua inglese; è ormai marginale l’uso del manx, di derivazione celtica. Le principali risorse economiche sono costituite dall’agricoltura (frumento, orzo, avena, patate), dall’allevamento e dalla pesca. Le isole Normanne (o del Canale, trovandosi nella Manica) hanno complessivamente una superficie di 195 Kmq e una popolazione di circa 130.000 abitanti. Comprendono l’isola di Jersey (116 Kmq, 74,350 abitanti), l’isola di Guernsey (63 Kmq, 54.350 abitanti). Vi si parla l’inglese e un dialetto franco-normanno. Le risorse economiche sono costituite dall’agricoltura (grano, patate, pomodori), dell’allevamento (bovini, suini e volatili), dalla pesca e dal turismo. Gibilterra è Estremità meridionale della penisola iberica, sullo stretto omonimo, che separa il mar Mediterraneo dall’oceano Atlantico. Confina a nord con la Spagna, e si estende su un promontorio roccioso (altezza massima 425 m). collegata alla terraferma da un istmo di 1,6 Km di lunghezza per 800 m di larghezza. Vi abitano all’incirca 30,000 persone, discendenti di italiani, spagnoli e portoghesi, oltre alla guarnigione militare, raccolti sulla costa occidentale (soprattutto nella cittadina di Gibilterra). Territorio britannico fin dal 1704 (una conquista ratificata dal Trattato di Ultrecht del 1714), Gibilterra ha ottenuto dal 1969 il superamento di condizione di colonia. Oggi è "parte dei domini di sua Maestà" e ha un governo locale che risponde a un’Assemblea parlamentare elettiva di 15 membri. Sono di competenza del governatore britannico la sicurezza interna e la politica estera e di difesa. Le prevalenti risorse economiche sono offerte dal porto, sia come scalo commerciale che come zona di rifornimenti di carburanti per la navigazione. Bermuda sono un arcipelago di 360 isolette di natura corallina (una ventina abitate), posto a circa 900 Km a sud-est di Capo Hatteras, di cui la maggiore, la Gran Bermuda (Main Island) è la più importante, con capoluogo Hamilton (2.100 abitanti). Si estendono per complessivi 54 Kmq, con 65.000 abitanti; la produzione agricola consta prevalentemente di patate, pomodori, essenze vegetali, fiori e bulbi. Molti altri sono i possedimenti britannici .L’Agricoltura è arativa e a colture arborescenti 24,5% del territorio; prati e pascoli permanenti 45,3%; foreste e boschi 10,2% ;il resto è incolto e improduttivo. I prodotti sono frumento, orzo, segale, avena, barbabietole da zucchero, ortaggi, alberi da frutta. Si allevano volatili, ovini, suini, cavalli, asini. Le foreste producono legname di circa 12 milioni mc. La quantità di pesce sbarcato è di circa 1 milione di t. I Minerali estratti sono carbone, petrolio, gas naturale, salgemma, stagno, rame, zinco, piombo, tungsteno, ferro. Industrie: siderurgica, metallifera, dell’alluminio, dello stagno, aeronautica, navale, tessili, chimica, atomica e alimentare. L’importazione è maggiore dell’esportazione per questo c’è un commercio attivo.

 

 

Superficie: 244.173 Km²
Abitanti: 58.610.182
Densità: 240 ab/Km²
Gruppi etnici: Inglesi 79%, Scozzesi 9%, Gallesi 5%, Irlandesi del Nord 3%, altri 4%
Isole principali: Gran Bretagna 229.885 Km², Irlanda 14.120 Km² (parte della Gran Bretagna, totale 84.420 Km²), Isole Ebridi 7.283 Km² (Isola di Lewis 2273 Km²), Isole Shetland 1.433 Km², Isole Orcadi 976 Km², Isola di Arran 460 Km², Isole del Canale 195 Km²
Clima: Oceanico – temperato
Lingua: Inglese (ufficiale), Gallese, Gaelico
Religione: Anglicana
Moneta: Sterlina inglese

 

Soprattuto nel sistema legislativo l’Inghilterra diverge dall’Italia: non esiste una Costituzione, ma il diritto si basa sulle norme di consuetiuine. In Inghilterra il potere esecutivo è esercitato dal Primo Ministro, quello legislativo dal Parlamento e quello giudiziario dalla magistratura.