Prof. Massimiliano Badiali

Tesina interdisciplinare

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

STORIA

- Le cause e La Prima Guerra Mondiale

 

ITALIANO

- Gabriele D’Annunzio: estetismo e superomismo

 

 

 

 

 

 

Gabriele D'Annunzio nasce a Pescara il 12 marzo 1863. Compie gli studi liceali nel collegio Cicognini di Prato, distinguendosi sia per la sua condotta indisciplinata che per il suo accanimento nello studio unito ad una forte smania di primeggiare. Già negli anni di collegio, con la sua prima raccolta poetica Primo vere, pubblicata a spese del padre, ottiene un precoce successo, in seguito al quale inizia a collaborare ai giornali letterari dell'epoca. Nel 1881, iscrittosi alla facoltà di lettere, si trasferisce a Roma. Dopo il successo di Canto novo e di Terra vergine (1882), nel 1883 ha grande risonanza la fuga ed il matrimonio con la duchessina Maria Hardouin di Gallese, unione da cui nasceranno tre figli, ma che a causa dei suoi continui tradimenti, durerà solo fino al 1890. Compone i versi dell’Intermezzo di rime ('83), la cui «inverecondia» scatena un'accesa polemica; mentre nel 1886 esce la raccolta Isaotta Guttadàuro ed altre poesie, poi divisa in due parti L'Isottèo e La Chimera (1890). Ricco di risvolti autobiografici è il suo primo romanzo Il Piacere (1889), che si colloca al vertice di questa mondana ed estetizzante giovinezza romana. In questo romanzo la carica vitalistica e sensuale delle raccolte poetiche di Primo Vere e di Canto Novo si corrompe: il sensualismo diviene lussuria e il sensualismo naturale diviene ricerca dell'artificio. Il Piacere è povero d’intreccio. L’innovazione sta anche nell’immissione del diario di Maria che crea una metascrittura romanzesca. Il romanzo non è la cinica proposta di estetismo, ma la denuncia del vuoto morale. Romanzo barocco della Roma mondana e romanzo sensuale. Andrea Sperelli è schiavo consapevole della propria sensualità, egli mente a se stesso e si rifugia nell’estetismo per mancanza di valori. Un mondo fallace e vacuo come quello barocco, che sente il bisogno di riempire. Un romanzo che rievoca il culto estremo dell’oggetto, il feticismo dell’arte. Questi romanzi presentano un personaggio che vive una lacerazione con la società. Sono questi degli antieroi vocati alla rinuncia, alla fuga ed alla passività. Messe in crisi le capacità euristiche della ragione, questi antieroi cercano di realizzarsi fuggendo dal reale, nel tentativo di esorcizzare la vita attraverso l'arte. C’è qui l’appartenenza di D’ Annunzio al decadentismo. La coscienza di crisi dell’intellettuale decadente o è vissuta in senso intimistico (Pascoli) oppure fugge nell’eccentrico e nel patologico.

Nascono così dei dandy e degli esteti.. Nella loro visione egocentrico-narcisistica hanno

un nuovo rapporto con la propria vita : essi vogliono fare della loro vita un’opera d’arte.

Altri esempi del romanzo decadente, da cui D’Annunzio attinge per scrivere il Piacere

Sono Controcorrente di Huymans e Il ritratto di Dorian Gray di Wilde.

Il Piacere si apre al centro dell’azione narrata: Andrea Sperelli, il protagonista, è nelle sue stanze, in attesa dell‘ex amante, la duchessa di Scerni, Elena Muti, che ha accettato il suo appuntamento dopo una lunga separazione. Elena lo ha lasciato senza una spiegazione, durante una gita romantica "fuori della Porta Pia", adducendo come unico motivo il fatto che deve partire. L’attesa dell’incontro si prolunga: quando Elena arriva, l’ardore che l’uomo prova gli suggeriscono parole infiammate a, seppur menzognere, tali da accendere l’animo della donna, che tuttavia continua a resistergli. Tanto che, quando l’amante fa diventare più pressanti le sue avances, non esita a porre la "domanda crudele" per fermarlo: "Soffriresti tu di spartire con altri il mio corpo?". L’incontro tra i due si chiude su questa battuta. A questo punto inizia il viaggio a ritroso che ha per apertura la descrizione del protagonista: il conte Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta. Rimasto signore di una discreta fortuna in giovane età per la morte del padre, è il nobiluomo alla ricerca del grande amore, educato "al culto della Bellezza". L’incontro con Elena Muti, giovane vedova, fa presagire il raggiungimento della meta. Il loro è un amore annunciato: entrambi giovani, belli, liberi da vincoli, amanti dei piaceri della vita e squisiti cultori del bello in tutte le sue forme, non possono che arrendersi, e volentieri, alle circostanze. La loro conoscenza avviene durante un ricevimento organizzato dalla cugina di Andrea, Francesca d’Ateleta. Tuttavia, proprio quando l’amore tra i due è al culmine e la stagione primaverile, ingentilendo le cose, sembra preludere a una nuova fase del loro rapporto giunge l’addio di Elena, improvviso e immotivato. Il colpo inatteso tramortisce Andrea, che per reazione si lancia in una serie di avventure, agevolate dalla fama ormai acquisita di conquistatore. Naturalmente le "prede" sono tutte titolate e bellissime. Gettatosi a capofitto nel "Piacere", non riesce a stordirsi a sufficienza, non tanto da dimenticare l’amata, delle cui seconde nozze gli giunge intanto notizia. Intanto conosce Maria Ferres,: la sua cosa più bella sono i capelli. Nel dichiararsi Andrea sceglie attentamente le sue parole: contenute nella forma e negli atteggiamenti; pronte per essere interpretate come irresistibile slancio passionale, ma contemporaneamente del tutto rispettose e testimoni della disposizione al sacrificio, alla rinuncia. L’ingenua e casta Maria è in grande affanno, travolta dagli eventi che la vedono in bilico tra una prudenza radicata e il turbine di sensazioni nuove e sconvolgenti da cui non sa difendersi. Maria si illude che il rapporto con Andrea, da cui è fortemente tentata, possa avere un suo percorso silenzioso, del tutto platonico e neppure manifestato, ma Andrea incalza l’amata, non le dà tregua, rinnova le sue profferte d’amore trasformandole in moto passionale incontenibile: Maria, infine, è costretta a confessare il proprio amore e poi fugge. Andrea, tornato nel pieno delle sue forze, si reca nuovamente a Roma. Ancora un po’ toccato dal ricordo di Maria Ferres, mette da parte ogni scrupolo e si getta nella vita di un tempo con un entusiasmo sforzato. Soltanto adesso Andrea viene a sapere il reale motivo per cui Elena lo ha abbandonato: la donna, sull’orlo di una gravissima crisi finanziaria, ha potuto trarsi d’impaccio solo grazie a un matrimonio d’interesse con Lord Heathfield, un ricchissimo nobiluomo inglese. Ora nel suo animo si consolida l’idea di un’Elena crudele e ingannatrice: quasi per contrasto, allora, ritorna l’immagine dolce di Maria Ferres e le due donne, come già è avvenuto, tendono a sovrapporsi. Tuttavia la passione per la vecchia amante è troppo forte e lo Sperelli si ripromette di conquistarla nuovamente, senza la pretesa di ritrovare un amore che, nella sua più completa accezione, è ormai perduto. Una sera viene a sapere che Maria Ferres è appena tornata a Roma. Il giorno successivo, l’incontro con la donna conferma che lei è ancora innamorata, anche se perdura una ferrea volontà di opporsi al suo desiderio.

Andrea è talmente ossessionato che, ricevuta in confidenza la conferma che Elena ha ormai un nuovo amante, la segue mentre si reca all’appuntamento d’amore. Poi, con la morte nel cuore e l’immagine di lei nella mente, attende Maria per scaricare su di lei il suo impossibile sogno. Ma stavolta Sperelli è troppo fuori di sé, tanto che il nome così lungamente trattenuto gli sfugge di bocca. Maria, in un attimo, comprende tutto; piena di orrore e di pena se ne va, mentre Andrea disperandosi cerca inutilmente di trattenerla. E’ l’epilogo. Lo Sperelli è consapevole del completo fallimento della sua vita, nonché della crisi irreversibile di quel mondo fatato in cui ha condotto l’esistenza.  L’indubbia appartenenza di D'Annunzio alla temperie decadentistica, anche se durante la sua carriera artistica egli abbia collezionato diverse esperienze - da quella naturalistica francese al realismo russo (Tolstoi e Dostoievskij), dagli influssi inglesi al Baudelaire, ai parnassiani, ai simbolisti, ecc.. Si ha, comunque, l'impressione che tali esperienze siano il frutto più di una morbosa curiosità letteraria che di un sincero e serio impegno artistico: donde l'occasionalitá e la frammentarietà della poesia dannunziana, che ha molti punti in comune con quella montiana. Il Decadentismo di D'annunzio ha in comune con quello pascoliano l'incapacità a considerare la vita nel suo reale sviluppo, cioè come storia, sulla quale non brilla alcun lume dall'alto né esercitano il loro influsso considerazioni metafisiche e religiose; inoltre, un soggettivismo esasperato. Tali elementi, tuttavia. mentre nel Pascoli si dissolvono «pudicamente nel senso smarrito del mistero, in Gabriele D'Annunzio generano una orgogliosa esaltazione dell'io, volto a realizzare se medesimo contro e fuori della storia» (Sansone).

Nel 1891 D’Annunzio assediato dai creditori si allontana da Roma, e si trasferisce insieme all'amico pittore Francesco Paolo Michetti a Napoli, dove, collaborando ai giornali locali trascorre due anni di «splendida miseria». La principessa Maria Gravina Cruyllas abbandona il marito e va a vivere con il poeta, da cui ha una figlia. Alla fine del 1893 D'Annunzio è costretto a lasciare, a causa delle difficoltà economiche, anche Napoli. Ritorna, con la Gravina e la figlioletta, in Abruzzo, ospite ancora del Michetti. Nel 1894 pubblica, dopo le raccolte poetiche Le elegie romane ('92) e Il poema paradisiaco ('93) e dopo i romanzi Giovanni Episcopo ('91) e L’innocente ('92), il suo nuovo romanzo Il trionfo della morte. I suoi testi inoltre cominciano a circolare anche fuori d'Italia. Nel 1895 esce La vergine delle rocce, il romanzo in cui si affaccia la teoria del superuomo, che dominerà tutta la sua produzione successiva. Inizia una relazione con l'attrice Eleonora Duse, descritta successivamente nel romanzo «veneziano» Il Fuoco (1900); e avvia una fitta produzione teatrale: Sogno d’un mattino di primavera ('97), Sogno d’un tramonto d'autunno, La città morta ('98), La Gioconda ('99), Francesca da Rimini (1901), La figlia di Jorio (1903). Nel '97 viene eletto deputato, ma nel 1900, opponendosi al ministero Pelloux, abbandona la Destra e si unisce all'estrema Sinistra (in seguito non verrà più rieletto). Nel '98 mette fine al suo legame con la Gravina, da cui ha avuto un altro figlio. Si stabilisce a Settignano, nei pressi di Firenze, nella villa detta La Capponcina, dove vive lussuosamente prima assieme alla Duse, e poi con il suo nuovo amore Alessandra di Rudinì. Intanto escono Le novelle della Pescara (1902) e i primi tre libri delle Laudi (1903). Il 1906 è l'anno dell'amore per la contessa Giuseppina Mancini. Nel 1910 pubblica il romanzo Forse che sì forse che no, e per sfuggire ai creditori, convinto dalla nuova amante Nathalie de Goloubeff, si rifugia in Francia. Vive allora tra Parigi e una villa nelle Lande, ad Arcachon, partecipando alla vita mondana della belle èpoque internazionale. Compone opere in francese; al «Corriere della Sera» fa pervenire le prose Le faville del maglio; scrive la tragedia lirica La Parisina, musicata da Mascagni, ed anche sceneggiature cinematografiche, come quella per il film Cabiria (1914). Nel 1912 , a celebrazione della guerra di Libia, esce il quarto libro delle Laudi. Nel 1915, nell'imminenza dello scoppio della prima guerra mondiale, torna in Italia. Riacquista un ruolo di primo piano, tenendo accesi discorsi interventistici, e traducendo nella realtà il mito letterario di una vita inimitabile, partecipa a varie e ardite imprese belliche, ampiamente autocelebrate. Durante un incidente aereo viene ferito ad un occhio. A Venezia, costretto ad una lunga convalescenza, scrive il Notturno, edito nel 1921.

Le Vergini delle Rocce sono il manifesto del superomismo. Claudio Cantelmo è un eroe sdegnoso e sprezzante, avverso alle "cloache" popolari, che è fautore del potere di pochi eletti superiori sulla folla sciocca. Egli inneggia apertamente alla guerra e alla strage. Il romanzo è un arsenale di quella retorica nazionalistica e antidemocratica che influenza gli interventisti. Anche i futuristi, movimento di avanguardia letteraria e artistica, che ha origine dalla pubblicazione del Manifesto del futurismo su Le Figaro del 20 febbraio 1909 hanno un atteggiamento sdegnoso e aristocratico nei confronti della realtà comune e dei valori classici e tradizionali. Nel manifesto dicono di cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità, che la cultura del passato deve essere distrutta: meglio un’automobile che le statue antiche. Il passato va distrutto. Essi, come D’Annunzio, sono favorevoli alla guerra, come sola igiene del mondo e sostengono il militarismo e il patriottismo. Essi sono convinti interventisti nella guerra.

La prima guerra mondiale, che nell'ottica è in realtà il momento culminante di processi storici, politici e filosofici che affondano le loro radici nell'Ottocento. Sarebbe del resto riduttivo ravvisare la causa del primo conflitto "totale" esclusivamente nell'attentato perpetrato a Sarajevo il 28 giugno 1914 ai danni dell'arciduca asburgico Francesco Ferdinando: esso fu solo la causa scatenante che fece esplodere in tutta la loro tragicità quelle trasformazioni ideologiche e culturali maturate sotto la "scorza" della pacata e tranquilla "bella époque". Nella profondità della realtà stavano già attuandosi processi di cambiamento irreversibile che, alla vigilia della prima guerra mondiale, "bussavano alle porte" della realtà per prorompere all'esterno: e l'omicidio di Francesco Ferdinando fu ciò che aprì i battenti e consentì alla nuova situazione di affiorare in superficie. Indubbiamente, uno dei principali fattori storici ed ideologici che causarono lo scoppio del conflitto fu il radicale mutamento di significato cui fu soggetto il concetto di nazione: se al principio dell'Ottocento la nazione era intesa come un'entità meramente culturale, come comunità di genti accomunate dalla stessa cultura, dalla stessa religione e dalla stessa lingua, nella seconda metà del secolo essa si connotò di nuovi significati, fino ad allora pressochè sconosciuti. La nazione divenne allora lo strumento di dominio dei popoli sugli altri popoli e perse il significato culturale rivestito in precedenza: la più fulgida espressione della parabola del concetto di nazione è rappresentata dalla figura di Crispi, il quale, dopo aver esordito come fervente garibaldino e come difensore della "nazione" concepita come entità culturale, mutò rapidamente atteggiamento nella seconda metà dell'Ottocento e finì per aderire al nazionalismo aggressivo di matrice bismarckiana. Proprio Bismarck può essere la chiave di lettura del nuovo significato rivestito dal concetto di nazione: anti-democratico dichiarato, egli portò l'esercito e l'imperialismo alle stelle e, con la Conferenza di Berlino, diede il via, legittimandolo, a quell'imperialismo selvaggio in cui si avventurarono gli europei nella seconda metà dell'Ottocento. Questo provvedimento, con cui si dichiaravano conquistabili gli stati extra-europei, non fece altro che dilazionare nel tempo le tensioni accumulatesi tra le varie nazioni europee: infatti, se momentaneamente esse venivano scaricate all'esterno, una volta occupati tutti i territori colonizzabili, le tensioni sarebbero nuovamente affiorate e lo scontro che ne sarebbe scoppiato avrebbe assunto carattere mondiale, coinvolgendo inevitabilmente anche i nuovi stati occupati. L'elemento di maggior attrito per la pace era costituito dalla rivalità tra Germania e Francia. La situazione tra i due paesi fu peggiorata dagli atteggiamenti intimidatori di Guglielmo II, soprattutto in occasione del tentativo francese di assicurarsi il protettorato sul Marocco. Nel 1905 e nel 1911, le due nazioni europee furono vicine allo scontro, ma grazie all'intervento delle diplomazie europee la tragedia fu evitata. La Francia ottenne il protettorato sul Marocco e diede in cambio alla Germania una parte del Congo. Altra zona estremamente delicata erano i Balcani, dove i popoli slavi sottomessi all'Austria aspiravano all'indipendenza e chiedevano l'appoggio della Russia, il maggiore Stato slavo, tradizionalmente interessata a inserirsi nei Balcani. Quando nel 1908 l'Austria decise di annettere la Bosnia e l'Erzegovina, molte nazioni europee protestarono ma senza risultato. La tensione esplose in occasione della guerra italo-turca per il possesso della Libia e la Turchia perse nella prima guerra balcanica quasi tutti i possedimenti europei. La spartizione di questi territori porto' alla seconda guerra balcanica: la Bulgaria, sostenuta diplomaticamente dall'Austria, fu sconfitta dalla Serbia, forte dell'appoggio della Russia, e dovette cedere numerosi territori. L'Austria, uscita cosi' sconfitta, attendeva l'occasione di rifarsi contro i Serbi e da questo contrasto doveva nascere la scintilla della prima guerra mondiale. E' poi opportuno annoverare tra le cause che portarono allo scoppio della prima guerra mondiale anche quello che è passato alla storia col nome di "revanscismo" francese: a desiderare ardentemente la guerra come strumento di dominio non furono soltanto i tedeschi, ma anche i Francesi. Infatti, se i Tedeschi vollero a tutti i costi la guerra poiché si sentivano "ingabbiati" in un territorio che, per la sua scarsa estensione, non corrispondeva al primato economico della Germania, i francesi, dal canto loro, erano assetati di vendetta e aspiravano fortemente ad una rivalsa sulla Prussia e, più in generale, sulla Germania che, guidata da Bismarck, aveva inflitto loro una pesante sconfitta con la guerra franco-prussiana. E tuttavia Bismarck, una volta edificata la Germania, cercò in ogni modo di garantire la pace e la tranquillità in Europa, lui che pochi anni prima l'aveva messa a ferro e fuoco con tre guerre (contro Danimarca, Austria e Francia) per assicurarsi una posizione di primato. E per garantire la tranquillità sul territorio europeo non potè far altro che scaricare nei territori extra-europei gli appetiti espansionistici delle varie potenze, dando il via alla caccia coloniale. Ciò che più temeva il cancelliere tedesco era un'alleanza tra Inglesi, francesi e Russi: alleanza che si realizzò quando, nella conquista coloniale dell'Africa, i Francesi che procedevano da Ovest a Est si incontrarono a Fashoda (1898)con gli Inglesi che invece si muovevano da Nord a Sud. Vi furono grandi tensioni tra i due contingenti militari, tanto che si temette una guerra: alla fine ebbe la meglio la diplomazia e si arrivò addirittura a stipulare un'alleanza tra i due stati, alleanza che fu poi estesa anche alla Russia, da poco sconfitta dalla nuova potenza giapponese. Da allora in poi le tensioni politiche e militari tra la nuova alleanza e il mondo germanico divennero insostenibili e scoppiarono in tutta la loro violenza nel primo conflitto mondiale. E' opportuno ricordare che la guerra venne anche intesa come strumento per scaricare all'esterno le tensioni sociali, acuitesi esponenzialmente a seguito della nascita dei Partiti Socialisti nelle varie nazioni europee: l'unica soluzione per far fronte ad un movimento operaio che rivendicava l'uguaglianza e propugnava la democrazia fu vista nella guerra, ovvero nella possibilità di inviare al fronte i rivoluzionari riottosi e, soprattutto, nella possibilità di militarizzare la società stessa, smantellando le istituzioni parlamentari e revocando ogni forma di democrazia. Con il nazionalismo, l’'irrazionalismo e il decadentismo nasce il concetto di "razza" che in quegli anni andava sempre più affermandosi e che avrebbe presto dato vita alla più grande tragedia della storia dell'umanità (nazismo). Ed è in questa prospettiva che sorge l'imperialismo. E' poi bene ricordare che, come reazione al positivismo, nella seconda metà dell'Ottocento, fiorì la filosofia di Nietzsche, a cui si ispirarono, senza peraltro comprenderne a fondo il significato, i futuristi e D'Annunzio stesso. Nietzsche, folgorante profeta del superuomo, predicò la disuguaglianza tra gli uomini e diede vita alla nozione di superuomo. E infatti, sebbene Nietzsche si dichiarasse esplicitamente avverso al razzismo, il mito del superuomo andò lentamente trasformandosi in mito della super-razza e i Nazisti poterono così strumentalizzare il pensiero nietzscheano, stravolgendone i contenuti. Personaggi e poeti come D'Annunzio, la cui sola musa ispiratrice fu la violenza, poterono così scatenarsi in fantasmagoriche perorazioni in favore della guerra e del superuomo, senza in realtà aver compreso pressochè nulla del pensiero nietzscheano (sarcasticamente Benedetto Croce dileggerà D'Annunzio dicendo " letto che ebbe qualcosa di Nietzsche … "). Il risultato di questa esaltazione di buona parte degli intellettuali fu che anche buona parte della popolazione civile si lasciò coinvolgere in questo entusiasmo sfrenato per la guerra e supportò le posizioni imperialistiche dell'estrema Destra.

Il primo quindicennio del XX secolo fu un periodo di progresso industriale. Esso nascondeva tuttavia, sia sul piano delle rivendicazioni nazionalistiche, sia su quello delle istanze sociali, notevoli contraddizioni. Le cause di questo spaventoso incendio che ha devastato l'Europa dal 1914 a1 1918 sono ben più complesse e articolate, soprattutto, per quel che riguarda l'Italia, paese comprimario più che protagonista, trainato più che trainante. Trainato da una situazione della quale gli alberi motore sono le grandi potenze europee tradizionali, l'impero austriaco, la Francia, la Germania, l'Inghilterra, la Russia. Nella contesa fra queste nazioni ci sono le radici del grande scontro. Indispensabile perciò fare il punto, sia pur molto sinteticamente, di questa situazione. Negli anni precedenti il 1914 la politica del cancelliere tedesco Otto von Bismarck, dopo la vittoriosa guerra contro la Francia, aveva portato alla creazione di uno strumento teso a garantire la conservazione della pace in Europa. La "Triplice Alleanza", firmata nel 1882, che univa Germania, Austria, Italia. Nel quadro del patto, l'alleanza fra gli imperatori russo, tedesco, austriaco e una politica di buoni rapporti con l'Inghilterra. Ma la convivenza non è facile. La tendenza degli imperi centrali all'espansione nei Balcani cozza contro le aspirazioni dello Zar su questi territori. L'Inghilterra dal canto suo vede con preoccupazione un altro interesse della Russia, quello per l'Estremo Oriente, e con altrettanta preoccupazione il veloce sviluppo della potenza economica, commerciale e militare della Germania che, con la politica di espansione mondiale ispirata dall'imperatore Guglielmo II, tende a conquistare anche i mercati mediorientali. In allarme anche la Francia, dati i precedenti. Considerata il quadro, gli inglesi si muovono per non trovarsi presi in contropiede. Bloccano l'azione della politica zarista verso l'Estremo Oriente facendo un'alleanza col Giappone (1902) e avvicinandosi alla Francia, che a sua volta aveva cominciato a seminare zizzania nella "Triplice" facendo alcune convenzioni con l'Italia, la più interessante delle quali dava via libera al governo italiano per la conquista della Libia in cambio della nostra neutralità in caso di attacco alla Francia. Nell'aprile del 1904 Francia e Gran Bretagna si legano con un'alleanza informale, l'"Entente cordiale", l'Intesa cordiale. Nell'agosto del 1907 sensazionale voltafaccia della Russia: lo Zar stipula un'alleanza con l'Inghilterra. La spinta all'accordo viene dalla sconfitta in Estremo Oriente, dal bisogno di pace dopo i primi moti rivoluzionari del 1905, che fanno vacillare il trono dell'imperatore Nicola II, dall'abbandono inglese del dogma dell'intangibilità della Turchia, Paese che sta entrando sempre più nella sfera di influenza germanica. Dopo la modifica dei due blocchi - che vede contrapposte Italia, Germania, Austria, legate dalla Triplice Alleanza, e Inghilterra, Francia Russia, unite informalmente nell'Intesa - seguono alcuni anni di bonaccia durante i quali tuttavia non mancano momenti critici. Il più grave l'annessione, nel 1908, della Bosnia Erzegovina da parte dell'Austria. L'episodio provoca l'indignazione della Russia, alla quale si uniscono Londra e Parigi, e violente manifestazioni dei nazionalisti serbi. Il conflitto viene evitato soltanto a causa dell'impreparazione militare dell'esercito zarista. Certamente gli storici evidenziano che le guerre spesso nascono come compensazione interna allo stato sociale interno: in tutta Europa la disoccupazione era fortissima e anche l’inflazione.

Forse per tutte queste motivazioni finanziarie, per l’alta disoccupazione e la povertà interna, ogni stato si risolse a attaccare altri come sfogo delle tensioni interne. La prima guerra imperialistica del 1914-1918 operò un «risanamento» gigantesco dell'economia capitalista, ingorgata da enormi eccedenze di capitali accumulati durante la sua espansione imperialistica e coloniale.

Il 28 giugno 1914 viene ucciso a Sarajevo, capitale della Bosnia-Erzegovina dove si trova in visita l'arciduca Francesco Ferdinando, nipote di Francesco Giuseppe ed erede al trono. L'assassino è lo studente Gavrilo Princip, membro di un'associazione patriottica serba. L'Austria, che nel delitto vede l'espressione provocatoria della politica serba scopertamente tesa alla conquista delle province slave meridionali, decide (ma, stranamente, a distanza di un mese dall'episodio) di liquidare la piccola nazione che minaccia la stabilità della parte balcanica dell'impero austriaco. La Germania dà l'assenso all'operazione: Guglielmo II è convinto che si tratti di una guerra lampo del tutto limitata ai due contendenti. Invece è la scintilla che dà il via al grande massacro. Dal 20 al 23 luglio lo zar di Russia, avuta la garanzia dell'appoggio francese, ordina la mobilitazione delle sue truppe. Il 28 l'Austria, dopo un ultimatum, dichiara guerra alla Serbia. Il primo agosto dichiarazione di guerra della Germania alla Russia in seguito al rifiuto dello zar di smobilitare, come da richiesta fatta dall'imperatore Guglielmo II. Due giorni dopo il governo francese ordina a sua volta la mobilitazione e la Germania dichiara immediatamente guerra anche alla Francia. Fra il primo e il 4 agosto l'esercito tedesco viola la neutralità del Belgio e del Lussemburgo, Paesi legati all'Inghilterra: scatta il conflitto anglogermanico. Dopo l'inizio delle operazioni militari Inghilterra, Francia e Russia formalizzano la loro alleanza con il Patto di Londra il 4 settembre 1914. Il Regno Unito, che fino al 1870 aveva goduto di un primato indiscusso nel commercio internazionale, e che trovava la più sicura difesa e garanzia di questo primato nel dominio incontrastato dei mari, per mezzo della sua potentissima marina militare e mercantile, vede dopo quell'anno salire con rapidità impressionante la produzione delle industrie tedesche e la loro esportazione in tutti i mercati del mondo, compreso quello inglese. Ma soprattutto i progressi della Germania furono sentiti in Inghilterra come una grave minaccia quando Guglielmo lI volle fare del suo impero una grande potenza marinara con un programma di costruzioni navali che in un tempo relativamente breve avrebbe dovuto assicurare alla Germania una marina da guerra tale da contrastare agli inglesi il dominio dei mari. Mentre l'Europa sta lacerandosi nelle prime battute dello scontro, l'Italia conserva una prudente neutralità. Sullo Stato gravano ancora le conseguenze finanziarie, notevolmente pesanti, della guerra di Libia (1911), che, pur avendo dato al nostro Paese la Libia, "granaio" d'Italia ai tempi dell'antica Roma, era durata molto più del previsto. Gli italiani stanno vivendo un momento drammatico della loro storia sociale, sono nel pieno della problematica scatenata dal lento passaggio della civiltà contadina alla civiltà industriale, una fase che vede esasperate contraddizioni, l'inasprirsi della legge del profitto sotto la spinta della trionfante filosofia della produttività, tipica della società industriale. Nei primi giorni del conflitto l’Italia si dichiarò neutrale. Essa era legata dal patto della Triplice Alleanza all’Austria ed alla Germania; ma i suoi obblighi formali erano venuti meno sia perché l’Austria era il paese aggressore, sia perché l’ultimatum alla Serbia era stato inviato senza la consultazione dell’Italia. La dichiarazione di neutralità (2 Agosto 1914) diede all’Italia la possibilità di svolgere trattative con i due blocchi opposti, riproponendo soprattutto il problema delle terre irredente, e quello dell’influenza nell’Adriatico e nei Balcani. La maggioranza del paese era orientata a favore della neutralità. Seppure per ragioni diverse, cattolici, socialisti e liberali giolittiani erano contrari all’intervento. I primi, che si opponevano alla guerra per ragioni di principio e perché temevano il crollo di una potenza cattolica qual era l’Austria, non furono inizialmente molto attivi a sostegno del neutralismo. Più tardi il papa Benedetto XV impegnò la sua autorità morale nella condanna della guerra che definì "orrenda carneficina, che disonora l’Europa" e "inutile strage". I socialisti giudicavano che la guerra si faceva per i contrastanti interessi della borghesia imperialistica dei vari paesi e ritenevano che le masse proletarie non avrebbero potuto trarne che sofferenze e sacrifici. I liberali giolittiani giustificavano il loro neutralismo con la convinzione che l’Italia avrebbe potuto realizzare i suoi obiettivi attraverso la via dei negoziati e ritenevano, che la guerra avrebbe provocato tali sconvolgimenti nella vita politica e sociale da mettere in pericolo la solidità del regime liberale. Le correnti favorevoli all’intervento erano anch’esse numerose e diverse. Gli interventisti democratici consideravano l’intervento italiano come il compimento del ciclo delle guerre risorgimentali (la "quarta guerra d’indipendenza") e ritenevano nello stesso tempo che esso avrebbe determinato il superamento degli ostacoli alla piena ed effettiva conquista della democrazia. Aderivano a queste posizioni i gruppi dell’opposizione democratica a Giolitti. I conservatori, capeggiati dal Salandra, che era allora presidente del Consiglio, e dal Sonnino miravano ad ottenere l’espansione economica e politica dell’Italia e il rafforzamento del suo prestigio internazionale e sostenevano che l’Italia non poteva sottrarsi alla gara tra le Nazioni. Le tesi dei conservatori furono sostenute da quello che era allora il più autorevole e diffuso giornale italiano, il "Corriere della sera". L’ala più rumorosa e aggressiva dell’interventismo era quella dei nazionalisti, che davano all’intervento un significato più chiaramente antidemocratico e controrivoluzionario. All’inizio i nazionalisti furono per l’intervento a fianco dell’Austria e della Germania, per convertirsi poi alla solidarietà con i paesi dell’Intesa. Il loro portavoce fu il D’Annunzio. A queste posizioni si avvicinavano quelle di un gruppo di socialisti rivoluzionari, che trovarono il loro capo in Benito Mussolini. Già direttore dell’ "Avanti", il quotidiano del partito socialista, egli aveva tuonato contro l’imperialismo e la borghesia appena la guerra era scoppiata; ma poco dopo aveva mutato atteggiamento e si era dichiarato a favore dell’intervento. Espulso, per questo, dal partito, Mussolini fondò un nuovo giornale il "Popolo d’Italia" e sulle sue colonne condusse una efficace e violenta campagna per l’intervento. Apparentemente analoga, seppure con obiettivi diversi (che si avvicinavano a quelli dei democratici) fu la campagna interventista dei gruppetti di sindacalisti anarchici, la cui azione fu specialmente efficace nel senso di creare disorientamento tra le file dei socialisti. Il gruppo degli irredentisti, si limitavano a porre il problema del Trentino e della Venezia Giulia e per questo sollecitavano l’intervento dell’Italia in guerra. Mentre divampava il contrasto tra neutralisti e interventisti il governo italiano continuò le sue trattative diplomatiche avvicinandosi sempre più - anche per le diffidenze incontrate presso il governo austriaco - alle potenze dell’Intesa. Con queste, il 26 Aprile 1915 il governo italiano stipulò segretamente, all’insaputa del Parlamento, il patto di Londra, in base al quale si impegnava a scendere in guerra entro un mese contro gli avversari dell’Intesa; in cambio, una volta raggiunta la vittoria, l’Italia avrebbe ottenuto il Trentino e l’Alto Adige, Trieste e l’Istria , la Dalmazia (esclusa la città di Fiume) e la base di Valona in Albania.
Stipulato il patto, il governo dovette affrontare la difficile situazione politica interna. I neutralisti avevano la maggioranza in Parlamento e, in tali condizioni, l’approvazione e l’esecuzione del patto incontravano gravi ostacoli. Una violenta campagna di intimidazione si scatenò allora contro i neutralisti, con una serie di manifestazioni di piazza in quelle che furono poi chiamate le "radiose giornate" di maggio. Il governo e la corte le incoraggiarono e se ne servirono per dare un crisma popolare alla decisione dell'’intervento..

Insofferenti delle forme e delle istituzioni parlamentari, dei controlli che esse comportavano, alcune forze premevano per una politica di espansione territoriale, cercando in ogni modo di conquistarsi nuovi e più ampi spazi di potere nello Stato e sullo Stato, nella prospettiva di un rafforzamento del protezionismo e di una dilatazione delle "commesse "pubbliche di cui si erano nutrite e ingrassate, esasperando temi e toni della lotta politica. Una volta di più appare chiaro che i nazionalisti costituirono la chiave di volta di tutto l'interventismo. Essi approdarono alla tesi dell'intervento a fianco dell'Intesa, dopo aver sostenuto in un primo tempo l'allineamento con gli Imperi centrali, palesando - come del resto altri settori dello schieramento politico - una chiara volontà di partecipare alla guerra non tanto per obbiettivi precisi, quanto per uscire dalla crisi nella quale la società italiana si dibatteva...Ecco perché nell'interventismo confluirono come in un crogiuolo uomini e tendenze politiche di provenienza così diversa, e perché in esso si realizzarono tante conversioni, altrimenti difficilmente spiegabili". L'Italia, dopo lunghi contrasti interni, nonostante la maggioranza del paese fosse ostile alla guerra, decise, il 24 maggio 1915, di intervenire contro l'Austria.

 

 

Nel 1916, mentre nei Balcani si assisteva al crollo della Serbia e alla quasi completa invasione della Romania, sul fronte russo le sorti della guerra erano alterne. Sul fronte occidentale si registrò una dura offensiva degli imperi centrali: in Francia l'iniziativa tedesca portò alla sanguinosa battaglia di Verdun; in Trentino l'esercito italiano riuscì a stento a bloccare la "spedizione punitiva" degli Austriaci, passando però poi alla controffensiva e liberando Gorizia. Nel 1917 il tentativo della Germania di spezzare il blocco navale inglese scatenando una guerra sottomarina illimitata provocò l'intervento degli USA a fianco dell'Intesa. Questo intervento non diede vantaggi militari immediati, e anzi la situazione dell'Intesa si aggravò in seguito alla defezione della Russia, che fu costretta dallo scoppio della rivoluzione del 1917 a uscire dal conflitto. Ciò permise agli imperi centrali di portare rinforzi sul fronte occidentale, e di ottenere importanti successi. In Italia, gli Austro-Tedeschi sfondavano a Caporetto (ottobre 1917), costringendo le nostre truppe a ritirarsi fino al Piave. La sconfitta porto' alla sostituzione del generale Cadorna con il generale Diaz al comando supremo. In Francia, i tedeschi giunsero a minacciare Parigi. Ma gli imperi centrali erano ormai stremati e il massiccio arrivo in Europa delle truppe americane contribuì a rovesciare la situazione. Con la battaglia vittoriosa di Vittorio Veneto, l'Italia costringeva alla resa l'Austria-Ungheria (4 novembre): l'impero asburgico si dissolse. Anche in Germania una rivoluzione porto' alla fuga di Guglielmo II e alla proclamazione della repubblica, la quale, l'11 novembre, firmo' l'armistizio. Alla Conferenza della pace (Parigi 1919-20) si scontrarono la politica del presidente degli USA, Wilson, il quale chiedeva giuste condizioni di pace, ispirate al principio dell'autodeterminazione dei popoli (14 punti), e la politica di potenza di Inghilterra, Francia e Italia. Il trattato di Versailles impose alla Germania oppressive condizioni di pace (perdita di alcuni territori nazionali come L’Alsazia e la Lorena e delle colonie; riduzione dell'esercito e della produzione bellica). Con il trattato di Saint-Germain l'Austria fu ridotta a una piccola repubblica e dovette cedere l'Alto Adige, il Trentino, Trieste e l'Istria all'Italia. L'Ungheria fu dichiarata regno autonomo. Nacquero dalla spartizione dei territori austro-ungarici e dai territori strappati alla Russia la repubblica di Polonia, la repubblica della Cecoslovacchia, il regno di Jugoslavia, il regno di Albania e le repubbliche della Lituania, dell'Estonia, della Lettonia e della Finlandia.

Nonostante la perdita dell'occhio destro, D’Annunzio divenne eroe nazionale partecipando a celebri imprese, quali la beffa di Buccari e il volo nel cielo di Vienna. Alla fine della guerra, conducendo una violenta battaglia per l'annessione dell'Italia all'Istria e alla Dalmazia, alla testa di un gruppo di legionari nel 1919 marcia su Fiume e occupa la città, instaurandovi una singolare repubblica, la «Reggenza italiana del Carnaro», che il governo Giolitti farà cadere nel 1920.