TESINA INTERDISCIPLINARE

PROF. MASSIMILIANO BADIALI

 Il RELATIVISMO GNOSEOLOGICO

 

L'irrazionalismo è indubbiamente un tratto costante della filosofia del '900, che può complessivamente definirsi come filosofia della crisi (crisi dei valori, delle istituzioni e infine degli individui nella loro esperienza storica e quotidiana). Una prima manifestazione di tale tendenza irrazionalistica concerne la critica del metodo scientifico. La pretesa dei positivisti di spiegare ogni realtà, compreso l'uomo e la sua anima, in senso deterministico, cioè in base a una rigida successione di cause e di effetti, si rivela di fatto inattuabile anche da un punto di vista rigorosamente scientifico. Non è possibile, per esempio 'ridurre" la vita a cause unicamente fisiche e inorganiche. Ancor meno è possibile ridurre il fenomeno storico‑sociale umano a cause puramente biologiche. Secondo Taine l’uomo si determinava in base alla razza, al milieu ( contesto sociale) e al momento storico .

L'individuo per gli intellettuali del 1900, anche se influenzato dall'ambiente sociale, è però qualcosa di unico e di irripetibile.

Dall'insieme di queste critiche si fa strada l'idea (condivisa anche da molti scienziati) che i concetti, le categorie, le leggi scientifiche, più che rivelare l'essenza ultima e vera delle cose (come credevano ingenuamente i positivisti), siano utili astrazioni concettuali, che aiutano a capire il comportamento generale di alcuni fenomeni generali, ma che non servono a spiegarli.

Emblematico è in proposito il concetto di tempo. Nelle formule della fisica il tempo appare come una quantità vettoriale matematicamente misurabile.

Al tempo oggettivo, che secondo i novecentisti è una vuota astrazione, perché non costituito da istanti quantitativamente uguali, si oppone il tempo della memoria (come diceva Bergson) una "durata" qualitativa, intrecciata di mernoria e di aspettativa, e perciò non misurabile matematicamente. Fra l'Ottocento ed il Novecento assistiamo a nuove acquisizioni scientifico-filosofiche : la psicanalisi, la nuova fisica, la concezione del tempo interiore come durata. La psicoanalisi di Freud crea i presupposti per una narrativa del preconscio e dell’inconscio.

Proust ha ricreato nel mondo del romanzo, dal punto di vista della relatività un incrociarsi di piani psicologici. In La Ricerca del Tempo Perduto, l’infanzia di Swann prima ci viene presentata attraverso le impressioni che suscitava e poi quello che provoca nell’adolescente e nel giovane protagonista narratore. C’è però un frantumarsi della figura del narratore concepito come blocco unitario a livello psicologico.

Anche la nuova concezione del tempo, elaborata dal filosofo francese Bergson propone una distinzione fra tempo esteriore puramente cronologico e tempo interiore. Il tempo interiore dissolve le intelaiature in cui poniamo i dati e al prima e al dopo si sostituisce la durata.  La nostra coscienza è vista come presente e passata; il tempo non è più sentito come principio di logoramento e dissoluzione, perché non siamo solo la somma dei singoli momenti della nostra vita, ma il prodotto di ciò che ogni momento ci dà.

Si verifica anche nella scienza una crisi dei fondamenti classici. Di essa gli episodi più rilevanti sono la creazione di geometrie non euclidee, la discussione sui fondamenti della matematica e della logica e infine la rivoluzione della fisica inaugurata da Albert Einstein. Per millenni si era ritenuto che la geometria euclidea fosse la perfetta espressione delle proprietà dello spazio naturale. La nascita di geometrie non euclidee (che per es. contraddicono il principio secondo il quale due rette parallele non si incontrano mai, oppure che si basano sull'ipotesi di più di tre dimensioni dello spazio, cioè di uno spazio a incognite dimensioni) apre la via a ricerche e a risultati

Da un punto di vista più generale si può dire che la riflessione scientifica contemporanea ha assunto un abito critico assai più marcato rispetto alla sua tradizione settecentesca e ottocentesca, anzitutto attraverso una presa di coscienza del carattere profondamente storico di ogni teoria scientifica. Non esistono nemmeno nella scienza verità assolute. L'impresa scientifica è inevitabilmente condizionata dalla mentalità del tempo, dalle filosofie, dalle ideologie sociali, religiose e politiche.

Questo estrema relativizzazione del pensiero influisce anche sulla religiosità. I novecenteschi sentono una grande lontananza da Dio. Al centro dell'opera di Nietzsche, infatti, sta l'annuncio della "morte di Dio", ovvero della fine di quel sistema di valori, che caratterizza la civiltà europea e in particolare la tradizione cristiani. Profon­de affinità corrono poi, come è stato notato, tra le analisi di Nietzsche e la crisi storica : intuì per primo l'imminenza di uno scontro ideologico e materiale che avrebbe contrap­posto non solo le grandi potenze europee, ma anche, entro ogni Stato, le classi sociali, provocando la distruzione della supremazia spirituale dell'Europa. L'esi­to ultimo verso il quale precipitava la civiItà europea fu denominato da Nietz­sche "nichilismo".

Proprio questa crisi radicale dell'esistenza è il tema centrale che ispirò l'esi­stenzialismo e, prima ancora, quella che fu la sua matrice culturale più diretta,

 vale a dire la fenomenologia di Edmund Husserl, (1859-1938), Come già Nietzsche anche Husserl denuncia la crisi esistenziale dell'Europa. Egli ne ravvisa la causa nell’intellettualismo": proprio le scienze, con i loro enormi pro­gressi, hanno determinato un sapere sempre più specialistico e parcellizzato.

 Viene meno però il senso filosofico complessivo del sapere e con esso ogni ri­sposta ai perché e ai fini ultimi dell'esistenza. Si determina così una generale cri­si di civiltà: affidati a loro stessi gli individui oscillano tra molteplici ideologie in­fondate; si diffonde allora un senso di stanchezza e di scetticismo, oppure di frenetico quanto vacuo attaccamento al contingente e all'effimero. Contro questa degenerazione della cultura europea Husserl auspica un ritorno alla concretezza dell'esperienza soggettiva. Mettiamo tra parentesi ogni teoria e ogni ideologia- diceva Husserl, e torniamo a considerare la vita interiore della coscienza, cioè l'esperienza diretta delle cose e del mondo che il soggetto incontra primi di ogni spiegazione o teoria; basiamo sul­l'evidenza di tali esperienze la ricostruzione del nostro sapere.

Il progetto fenomenologico confluì direttamente nell'esistenzialismo di cui fu iniziatore Martin Heidegger (1889‑1976), con la sua opera Essere e tempo (1927). Nato dalla filosofia, l'esistenzialismo entrò nella storia del costume, determinando un generale clima che ebbe influssi anche sulla letteratura, le arti, le mode. Sostanzialmente l'esistenzialismo è caratteriz­zato da un radicale pessimismo. Carattere fondamentale dell'esistenza umana è infatti la "deie­zione", cioè  l’essere gettati nel mondo ignari della propria provenienza e del proprio destino, cioè ignari del senso ultimo della nostra vita. Affidato alla caducità del tempo e alla inevitabilità della morte, l’uomo assiste allo mondo, senza sapere perché esiste. Di qui gli sente un senso di assurdità profonda. L’assurdo del vivere deve portare ad accettare l’angoscia dell’esistenza e lo scacco della mortalità dell’uomo.

Negli scrittori del Novecento la crisi del ruolo dell’intellettuale si acutizza : vive frustrato nella sua ansia di conoscenza, travolto da violenze o si sente come un insetto privo di senso alla ricerca di un rapporto con il reale, che vivono con inettitudine ed angoscia (Tozzi - Svevo).

La complessità del reale e l’arrocaqmento dell’interiorità tipica del personaggio novecentesco comportano tecniche di rappresentazione che insistono sulle rifrazioni e sugli echi che essi hanno nell’interiorità del soggetto.

Il narratore deiromanzi novecenteschi è per lo più il narratore interno (Pirandello, Proust, Svevo) : un narratore che è anche protagonista, che presenta un universo limitato nella prospettiva dell’io narrante, di cui vengono registrati conflitti e lacerazioni.

Il romanzo novecentesco è, pertanto, cronico-casuale. Importanti mezzi usati per la narrazione sono lil flusso di coscienza, il Flashback e il monologo interiore. Nell'Ulisse di Joyce, costruito sulla falsariga dell'epos omerico, usa tecniche innovative: il flusso di coscienza si ricompone in meccanismi associativi, giochi di parole, ed assonanze. Il viaggio dell'Ulisse novecentesco non può avvenire che in un magma linguistico, apparentemente caotico, ma organizzato dall'immaginazione verbale dello scrittore. Nel flusso di coscienza e nella ricerca della disgregazione sintattica della frase, destrutturata di segni e di parole, si può vedere l'influenza dell'avanguardia.

Anche a livello tematico il romanzo novecentesco si distingue da quello ottocentesche.  Il romanzo classico si proponeva di delectare e docere, questo, invece, non insegna più nulla: presenta infatti degli antieroei, degli inetti e degli uomini senza qualità.

Il Croce aveva definito tre malati di nervi i tre decadenti, cosi ci possono apparire come tre casi clinici anche Svevo, Pirandello e Tozzi. Ed è anche vero, sono malati di nervi (direi che la malattia nervosa è la malattia fondamentale dei '900); sono uomini che si sentono estraniati dalla realtà ambientale e culturale, sono soli contro tutti. Nevrosi, psicosi, schizofrenia (appunto la malattia dell'io) sono le connotazioni di questo tipo di uomo che percorre la letteratura del 900, vuoi come personaggio, vuoi come autore.

Ha dunque ragione Croce? No, in una società che ha compromesso il valore, l'autenticità, l'unicità della coscienza dell'io, l'artista decadente protesta contro questa alienazione.

Tutta la cultura del Novecento è il tentativo di allargare il concetto di ragione : una ragione che vuole chiedersi il senso di tutto, il senso del prima e del dopo; una ragione che, scoprendo al proprio interno una ragionevole domanda (chi sono, da dove vengo, dove vado?), cerca di dare a questa una ragionevole risposta. Ribadiamo schematicamente alcune premesse per inquadrare il « romanzo nuovo »: è un romanzo antinaturalista, ha i suoi campioni in Joyce e Proust (e anche in Kafka, come vedremo) diversissimi fra di loro ma uniti dallo stesso sguardo sulla realtà: la realtà è l'involucro di un segreto invisibile ed essenziale, l'involucro di un'anima in cui dimora il senso delle cose e della vita. La narrativa precedente era esplicativa, la nuova è interrogativa: l'uomo non sa più chi è. C'è oramai una nuova fisica; all'ottimi­smo progressista, come abbiamo già detto, subentra un senso di catastrofe; e l'uomo, riconoscendosi dissociato, schizoide (in greco  = dividere),diviso, diviso tra apparenza e sostanza, tra cuore e mente, desidera tornare ad una risposta, ad una realtà simbolica = riunire ciò che era diviso).

Un uomo dissociato, schizoide dentro di sé, dunque anche fisicamente deformato, anche esteriormente deforme. Così ci appare l'uomo in questi tre scrittori: entro un romanzo interrogativo, cioè alla ricerca dei significato della vita, il protagonista è dissociato, dilacerato, deformato, tutto proteso verso una risposta adeguata alle grandi domande che ha dentro .

La coscienza di Zeno di Svevo è la storia di un inetto raccontata dal suo psicanalista. Svevo (1861‑1928), nasce a Trieste, culla della cultura italiana dei periodo (accanto a Svevo ci sono Saba, Slataper ... ), affacciata sull'Europa, con influssi slavi, tedeschi (Ettore Shmitz = Italo Svevo, Italia e Germania quasi sposate in questo pseudonimo). Impiegato in banca, da autodidatta studia i classici) legge Shopenhauer, i realisti francesi, pubblica a sue spese nel '92 Una Vita e nel '98 Senilità. I due grandi libri di Svevo passano inosservati; dal '99 lavora con suo suocero in una ditta di vernici sottomarine; comincia a star bene economicamente; dal 1905 inizia la sua amicizia con Joyce, che insegnava inglese a Trieste. Nel '23 esce La coscienza di Zeno e nel '25 lo sconosciuto Svevo diventa un nome famoso, quando Joyce e Montale lo « lanciano » in riviste non solo italiane ma anche straniere. Morirà tre anni dopo in un incidente stradale.

Tra i primi due romanzi di Svevo e il terzo ci sono 25 anni di silenzio: di questi 25 anni Svevo opera uno stacco formale ma entro una continuità sostanziale fra questi due tempi delle sua narrativa. Stacco formale perché passa dal verismo psicologistico alla psicanalisi (verso il 1908 aveva letto L'interpretazione dei sogni di Freud). In mezzo c'è dunque l'incontro con Freud, con la psicanalisi, e La coscienza di Zeno risentirà profondamente di questo incontro. La struttura esterna presenta una prefazione che lo psicanalista fa per ricordare il paziente Zeno Cosini.

L’opera è un diario dello psicanalista : il 3° capitolo racconta il vizio del fumo che Zeno fa per inettitudine, il 4° la morte del padre che il personaggio si augura, il 5° il tradimento della moglie Augusta buonissima con una donna dispettosa ( Ada).

I romanzi hanno una continuità sostanziale, riscontrabile nel tipo d'uomo che è il protagonista: « un uomo come domanda », un uomo che si saggia senza risolversi. Zeno è appunto l'uomo « inetto » a vivere, anche se il caso alla fine lo getta nella fortuna.

Proprio per questo la grande cultura borghese tenta di emarginare ed esorcizzare quest'arte, e per anni questi autori passano sotto silenzio, e sono scoperti molto tardi, attorno agli anni '20 di questo secolo.

Con  Zeno, anche il tempo è malato, e Zeno non fa nulla per guarire; riempie solo il diario di menzogne, quasi a descriverci l'inutilità della psicoterapia. Ci rimane l'impressione, il giudizio d'una inguaribilità: l'uomo è ammalato così in profondità che nessuna medicina lo può guarire. Questo è l'intimo sentimento di Zeno: l'inguaribilità dell'uomo non può cessare che con la scomparsa della specie umana (vedi l'ultima pagina del romanzo); solo cosi, paradossalmente, l'uomo si salverà.

Zeno fuma tanto per fare, non ama e tradisce la buonissima moglie Augusta.

La vicenda di Tozzi non è molto diversa. Tozzi, senese (1883‑1920), socialista anarchico da adolescente, approderà ad un cattolicesimo mistico ed aggressivo. Il suo terrore per Dio nasce dalla paura per la figura del padre : il Dio di Tozzi non è quello provvidenziale di Manzoni, ma un Dio che trasforma i propri figli in bestie. L’uomo nei romanzi di Tozzi è come una bestia in preda all’ansia, incapace di ragionare, che uccide senza pietà.  Soprattutto sul capolavoro Con gli occhi chiusi (1912‑1913) vorrei soffermare l'attenzione. Protagonista è Pietro; la donna verso cui è proteso si chiama Ghisola (che allude fonicamente all'isola, la « terra promessa », l'ideale).

Pietro è un recluso, un sequestrato, un imprigionato dietro quella frontiera degli occhi chiusi, tagliato fuori dalla realtà giudicabile della vita concreta, perché una malattia agli occhi l'ha provvisoriamente accecato. Guarisce dalla cecità fisica, ma gli resta una cecità psicologica: non vuol più vedere il mondo. Così il romanzo si pone come un resoconto di una realtà quale essa appare a chi non possiede i criteri razionali per vederla nei suoi concatenamenti naturalistici, nei suoi nessi causa‑effetto. La sua irrifiutabilità oggettiva è spaventosa; è come se Tozzi attraverso Pietro ci dicesse: se non vuoi rassegnarti ad un comportamento medio

utilitaristico, economicistico , se non vuoi rassegnarti a tutto questo, cioè a ciò che era descritto nel romanzo naturalista, tu devi decidere di non vedere quella realtà, di chiudere gli occhi.

Così Tozzi coincide inconsapevolmente con la crisi del naturalismo, è l'autore che non vuol più vedere, e di conseguenza inventariare la realtà; decide anzi di chiuderei sopra gli occhi. E’ dunque istintivamente, inconsciamente un pioniere; il suo repertorio è naturalista, ma i fatti non sono più spiegabili per cause ed effetti; alle garanzie razionali subentra Io sgomento esistenziale. C'è corrispondenza soprattutto con Kafka (anche in lui c'è la condanna a vivere coli gli occhi chiusi), questo mistico della cabala, che sa che Dio, sentito come padre, ha infuso nell'uomo il bisogno di vedere, ma non lo strumento per farlo. La vita è allora un'attesa all'infinito. Lo stesso capita a Pietro, inetto, impotente, psicologicamente castrato (e, in un altro libro di Tozzi, Tre Croci, lo stesso accadrà ai tre fratelli protagonisti). Questo di Tozzi è un emisfero notturno, l'emisfero dell'inconscio e della fatalità, diametralmente opposto a quello del verismo e del naturalismo francese.

Interessante analizzare il rapporto esistente fra Tozzi e Kafka. Sono entrambi animati da una sensibilità religiosa, in entrambi il padre padrone è oggettivato ed “ha la funzione di specchio di una generale frustrazione umana” (De Benedetti). Asor Rosa dice che Tozzi basa il suo romanzo sulla crudeltà. Il mondo di Tozzi è il mondo del terrore del Sanfedismo: l'uomo che Kafka riduce ad animale, qui diviene una bestia. L'impotenza diabolica dell'uomo davanti al peccato originale Io fa regredire a bestia. E' qui evidente come il Dio di Tozzi è terribile, opposto al Dio Padre dei Promessi Sposi. Anche nelle Metamorfosi di Kafka il protagonista diviene scarafaggio: Gregor si adatta a questa punizione che a lui quasi sembra naturale. Per il realismo della descrizione l'assurdo, stesso motivo della narrazione kafkchiana, diviene quasi dimensione di realtà oggettiva e normale.

Pirandello ( 1867‑1936) nasce a Girgenti, in Sicilia. Conosce poi la grande cultura tedesca, e conosce la lingua tedesca, decisiva per capire che cosa sta succedendo in Europa in questo periodo.

Nel 1904 pubblica Il fu Mattia Pascal.

E’ cosi l'emblema dell'uomo del primo novecento: mettendo incinte due donne ci si rivela come l'uomo che gioca con  l'amore, che è possibilità d'interezza per la vita, e una delle principali vie del processo di autoidentificazione. Mattia si accorge però che è la vita a definirlo: si ritrova con due arpie in casa, in miseria, con un lavoro che non richiede alcuna capacità, si ritrova dunque entro la mediocrità; sì autodefinisce « inetto » A quel punto comincia a leggere filosofia, trovandosi « solo mangiato dalla noia » e queste sono due parole‑chiave del romanzo. Va sulla spiaggia  e si accorge della propria immobilità, che fa sgorgare la domanda: « perché ? ».

A quel punto decide di campare alla giornata, adeguarsi alla società: gli nascono due figlie, ma queste due bambine si graffiano nella culla: il male abita nel cuore dell'uomo, se le due bambine si graffiano nella culla; non c'è innocenza neppure in un neonato.

Una delle pagine più belle è quella in cui Mattia ricorda la nascita, la breve vita e la straziante morte delle due gemelle. « Erano mie »: in questo possesso‑appartenenza Mattia pare ritrovarsi, comprendere la propria identità, potendo dire « mio » d'un altra persona (le pagg. 86‑87 sono intessute degli aggettivi possessivi e dei pronomi personali « Mia, mie, mi, me »). Figlia e madre muoiono però lo stesso giorno, e a quel punto accade la svolta dei romanzo: lui che aveva sempre barato con tutto, soprattutto con l'amore, non aveva però potuto barare con la carne della sua carne, ma anche questa gli era venuta meno. Mattia non può più vivere perché non ha legami né coi passato né coi futuro (né la madre, né la figlia). La sua è una fuga folle nella notte finché giunge a Montecarlo ove gioca e vince « una somma veramente enorme ». Ma subito dopo anche a Montecarlo si parla di noia, di schifo di vivere senza spe­ranza.

La sua storia ha però una svolta. Dopo aver vinto sta tornando a casa coli le sue 82.000 lire e covando pensieri di rivalsa tipo: adesso , faccio vedere io, strega d'una suocera, ciabattona d'una moglie! Ma sulla via del ritorno in treno apprende la notizia giornalistica del proprio «suicidio»: il cadavere di uno sco­nosciuto è stato evidentemente scambiato per il suo! Si sente dunque libero, d'una libertà come sganciamento dai vincoli ambientali, storici, spazio‑temporali. Questa è la grande trovata di Pirandello.

Mattia finora non si conosceva, quindi Pirandello non poteva descriverne un'azione che ce lo presentasse dicendoci chi è e cosa vuole. Ma ora è ricco, anagraficamente libero e deciso a ricominciare la vita come uomo autofabbrica­to: « Stava a me: potevo e dovevo esser l'artefice del mio nuovo destino » (p. 114). Perfetto esempio dunque di potenziale superuomo. Ma la sua storia non giunge a buon fine: Mattia Pascal cerca la felicità ma si accorge di non poterla raggiungere. Anche Pirandello, vicino ideologicamente all'esistenzialismo, s'interroga sul senso della vita, Vitangelo Moscarda in Uno Nessuno e Centomila, dopo la riflessione della moglie sul suo naso, inizio ad interrogarsi sul senso della vita. L'idea di vedersi vivere diviene insopportabile : "non potea vivendo, rappresentarmi a me stesso negli atti della vita (...) vedermi come gli altri mi vedevano; pormi davanti al mio corpo e vederlo vivere come quello di un altro (...) quando mi ponevo davanti ad uno specchio, avveniva come un arresto in me: ogni spontaneità era finita, ogni gesto appariva a me stesso fittizio e rifatto. Io non potevo vedermi vivere ".

Ciascuno di noi è divenire, perché la vita è casualità. Ciascuno di noi è uno, nessuno e centomila: siamo tanti quanti coloro che ci osservano.

Pirandello, per il quale la storia è una prigione, ha liberato Mattia dalla storia e gli potrebbe chiedere: « adesso mostrami cos'è l'uomo nuovo, di che cosa ha sete quest'uomo contemporaneo cosi triste? »; ma non lo fa, perché anche lui non sa che cosa sia l'uomo nuovo, o meglio lo sa solo negativamente; ha una coscienza del limite strutturale presente nel cuore umano, ma non sa poi indicare la strada verso l'infinito; contesta la strada superomistica dannunziana e non sa però trovarne altre. Ne esce così un nuovo Mattia sgradevole e brutto, ancor più del primo, diverso nell'apparenza ma identico nella sostanza. Così Mattia è sempre più un « forestiero della vita », è sem­pre in difesa, costringe per due anni la sua vita ad una serie di cautele sempre più inutili, soffoca i suoi sentimenti; è il personaggio negativo, è colui che dice più «no» possibile. Ma è «sospeso in un vuoto strano», la sua ricerca della feli­cità porta all'infelicità.

La conclusione de « Il fu Mattia Pascal » è il ritorno di Mattia al suo paese: li ritrova la moglie risposata con Mino, l'amico di gioventù, e madre di una bambina; non vuole disturbare il loro amore; semplicemente va ogni tanto a mettere dei fiori sulla propria tomba, e il libro, che si era aperto con la frase « io so una sola cosa: che mi chiamo Mattia Pascal » si chiude con una frase simile: « io sono il fu Mattia Pascal».

Forse in questo « Pascal » è nascosto il dramma di Pirandello: dramma di una domanda prepotente in Blaise Pascal che trecento anni prima arriva alla fede; dramma di una domanda che ora non sa più approdare ad una certezza. Per un attimo Mattia, alias Adriano Meis, pare trovarla nel suo incontro con Adriana, a Roma, ma non può sposarla (per l'anagrafe egli è morto!): ritorna al paese, ma la moglie non è più sua, come non lo erano più state la madre, la figlia, se stesso.

E’ solo e si sente « sperduto ».

Una drammatica tensione si consuma tra la vita e l'essere che vuole se stesso e vuol darsi una forma, la vita è movimento verso la morte; in ogni forma vitale c'è un senso di finitezza. Pirandello pensa che, perché l'essere viva, bisognerebbe che uccidesse di continuo ogni forma ( Màttia Pascal diviene Meis), ma senza forma l'essere non vive (Adriano Meis è un fu Mania Pascal). Le idee, i codici sono solo maschere e tentativi. di cristalizzazione del flusso vitale interno. Non resata all’uomo che diventare pazzo come Enrico IV o natura come Vitangelo Moscarda.

L’espressionismo rientra come movimento nella critica della ragione. Il termine «espressionismo» è entrato ormai nell'uso comune della critica d'arte in relazione a quelle opere che intendono «esprimere» fortemente il sentimento individuale dell'arista, piuttosto che rappresentare oggettivamente la realtà, deformando coscientemente quest'ultima affinché risulti evidente che ciò che noi vediamo nella tela non è la riproduzione di un oggetto cosi come appare, ma come lo «sente» l'autore che proietta in esso la propria vita interiore.

«Espressionista, insomma, è qualcosa di diverso da «espressione». Se è vero che ogni artista «esprime» i propri sentimenti, è solo l'espressionista che costringe lo spettatore a vivere questi sentimenti con immediatezza, che lo coinvolge, lo emoziona, provocando, in lui reazioni psicologiche violente.

Il concetto di arte ‑ espressione, tuttavia, nasce solo quando si scinde l'attività artistica, come frutto della sensibilità, da quella scientifico‑filosofica, come frutto della ragione : l’arte espressionista è quella che produce il soggettivo. L'espressionismo si oppone perciò a ogni forma di naturalismo. Anzi il nome stesso è polcrnico `um '~) nei confronti dell'impressionismo, l'uno indicando la proiezione dei sentimenti dall'interno verso l'esterno (ex‑primere), l'altro la ricezione dell'esterno nell'interno (im-primere).

La critica all'impressionismo non è esatta, perché abbiamo constatato come questa corrente che è alla base di tutta l'ane moderna, abbia già posto l'accento sulla relatività della percezione umana, sulla transitorietà di tutte le cose, sul soggettivismo (pag. 309); tuttavia l'espressionismo crede di vedervi ancora almeno un residuo di rapporto con la realtà oggettiva e che la differente resa di questa sia dovuta, come diceva del resto lo stesso Degas, non tanto a uno «stato d'animo», quanto a uno «stato d'occhio».

Il termine «espressionismo» è stato usato per la prima volta in Germania nel 1911, in una rivista non a caso intitolata «Sturm»( tempesta) e, fin dall'anno successivo, acquista il significato che abbiamo cercato di spiegare. In tal senso si applica principalmente ai pittori tedeschi dei primi decenni del secolo e, in senso lato, a tutti quegli artisti (a qualunque ambiente culturale appartengano) che, abbiano come scopo il superamento della resa oggettiva della realtà esterna. Kirchner è il temperamento più inquieto e complesso. Il suo itinerario artistico, pur sempre essenzialmente espressionista, si modifica a contatto con il mondo meglio, di insicurezza, di smarrimento, di angoscia. Angoscia che è provocata da qualcosa di determinato, quella dal nulla : è angoscia esistenziale, paragonabile solo alla vertigine che si prova guardando dall'alto nella profondità, simile a quella dell'uomo che guarda non fuori, ma nell'abisso di se stesso.

L'angoscia, la tristezza, il dramma esistenziale sono i temi di quasi tutta la pittura di  Munch; per rendersene conto è sufficiente scorrere l'elenco di alcuni titoli di suoi quadri: Il letto di morte, La madre morta, La morte nella stanza della ragazza, La bambina malata, Odore di morte, Angoscia e cosi via.

Pirandello riassume il relativismo novecentesco : i sui romanzi noon danno più una visione univoca della realtà, ma evidenziano il contrasto fra realtà ed apparenza, l’assurdità della condizione umana. Il relativismo getta l’uomo nelle tenebre e lo spinge ad osservarsi fuori da sé. La depersonalizzazione dell’uomo nasce dalla perdita di ogni sicurezza : tutto è relativo come dice Einstein. Il reale è molteplice e non conoscibile.

Come Pirandello ogni intellettuale del Novecento sente l’uomo incapace di conoscere, è pervaso dal relativismo gnoseologico.